Nell’universo cinematografico Marvel si possono identificare due precisi spartiacque che hanno permesso al franchise di evitare una prematura fase discendente nella sua gloriosa parabola. Il primo è l’avvento di James Gunn e dei Guardiani della Galassia, che ha aperto le porte ad un modo diverso di guardare ai cinecomic, certificato poi dal dissacrante Thor: Ragnarok di Taika Waititi, secondo momento topico nell’economia artistica dell’MCU.
Il quarto stand-alone del Dio del Tuono interpretato da Chris Hemsworth, Thor: Love and Thunder, riparte da lì e spinge ancor più all’estremo quella maniera di intendere la materia, sancendo la definitiva trasformazione comico-grottesca dell’eroe Marvel iniziata proprio nel 2017. Quattro anni prima, Hemsworth aveva raffreddato il pubblico dell’MCU con The Dark World, ritenuto non senza ragioni una delle peggiori espressioni della Casa delle Idee. Poi, la tanto amata-odiata svolta.
La lezione che Kevin Feige ha probabilmente imparato dal film di Alan Taylor, è che al pubblico Marvel non interessava così tanto vedere l’ennesimo personaggio eroico-machista dai tratti mitologici. Quel Thor, pur concedendosi sprazzi di consueta ironia, si prendeva troppo sul serio e da qui il restyling avvenuto prima con Ragnarok, quindi con la versione Bro Thor di Avengers: Endgame. Lo ritroviamo esattamente così: non è stato solo reso umano troppo umano, ma pomposamente ridicolo e fiero di esserlo.
All’inizio di Love and Thunder, l’eroe è assieme a Peter Quill e agli altri Guardiani della Galassia, ma ben presto viene richiamato da una nuova missione: Gorr il Macellatore di dèi sta sterminando divinità amiche e nemiche del Dio del Tuono e i suoi piani si spingono fino all’annientamento totale di ogni pantheon. Thor non deve affrontarlo da solo, però: con lui ritroviamo Valchiria (Tessa Thompson) e soprattutto Jane Foster nella nuova versione Mighty Thor, un debito che l’MCU ha pagato nei confronti della prematuramente dismessa Natalie Portman.
Sebbene le sequenze con protagonista un luciferino Christian Bale e la Necrospada siano tutt’altro che spiritose e si spingono anzi in blandi territori horror, tutto il resto del secondo lavoro di Taika Waititi per l’universo Marvel ricalca lo stile usato per Ragnarok, moltiplicato a dismisura: la patina grotesque permea dialoghi, situazioni e personaggi, tanto che la pièce teatrale che riporta letteralmente in scena Matt Damon nell’MCU – volutamente sopra le righe – è in realtà perfettamente in tono con le vere gesta di Odinson e compagni.
Tra gli orgiastici ammiccamenti di Zeus (Russel Crowe), rivelazioni en passant di cannibalismo ad Asgard e il complicato ma esilarante triangolo amoroso tra il Dio del Tuono e le sue due potenti armi, Thor: Love and Thunder de-mitizza l’intero pantheon di divinità viaggiando a gonfie vele sospinto da un umorismo blasfemo ed auto-riferito. Il suo limite, prevedibilmente, sta nel doversi piegare a logiche drammaturgiche pressanti che impongono, ad un certo punto, anche ad un irriverente Taika Waititi di far rientrare il film su binari più canonici e di tentare anche un’incursione sentimentale che non stona, ma non riesce neppure ad attecchire completamente.
Love and Thunder, quindi, si prospetta un altro film tanto divertente quanto divisivo per i fan Marvel: chi ha apprezzato la svolta vista in Ragnarok avrà di che gioire, chi invece predilige toni meno frivoli e caotici molto meno. Perché questo Thor ha definitivamente scelto chi essere e cosa fare da grande: è esagerato, fuori luogo e bonariamente sciocco, ma ha anche dei difetti.
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