L’avevamo lasciato ad osservare meravigliato dal basso verso l’alto il potente albero della vita. Lo ritroviamo stavolta, ancora incantato, a cercare il seme più profondo di quest’albero. “To the wonder” è una radice di quest’albero, ma al tempo stesso anche il prolungamento della materia da cui è generata. Malick continua in modo sempre più urgente e attivo il suo discorso, intimo e filosofico, sulla forza motrice della nostra esistenza: l’Amore. E lo fa ancora scegliendo la strada della difficile interpretabilità, dell’anticonvenzionale, dello sperimentalismo ai limiti dell’anti-narratività, della radicalizzazione manieristica del suo stile, della volontà di ascoltare la voce del suo interiore (sempre più irrazionale a dire il vero), e arrivare fin dove questi lo fanno giungere, anche pagandone limiti e imperfezioni. E’ l’apprezzabile ambizione di un autore che, anche se in modo irrisolto o minore rispetto ai precedenti suoi capolavori, lascia sempre trasparire quel suo appassionato e sincero interesse per i grandi interrogativi dell’esistenza e quella sua sensibilità e capacità di contemplare con estatico stupore il creato.
L’autore, come in “The Tree of Life”, di cui amplia e rigenera quesiti e problematiche, prova a riflettere filosoficamente ancora sulla meraviglia e sul mistero, e sulla potenza e sulla fragilità dei due principali tipi di amore: quello sacro, teso verso Dio e l’assoluto e quello terreno, teso verso l’uomo e l’umanità. Un amore sviscerato nella sua veste idilliaca ma anche nella difficoltà di essere espressa dall’umana natura o accolta e recepita in essa.
Attraverso le storie tormentate delle coppie e quella del prete dubbioso, il regista cerca il legame tra la sfera spirituale e quella carnale, tra la fede e l’amore, intimamente legati tra loro e infinitamente ricercati, anche se mai pienamente afferrabili nella loro vera natura. L’analfabetismo dell’uomo nel non saper amare e avere fede è pari solo alla sua incapacità (o impossibilità) naturale verso questi due fenomeni: la loro mancanza o la loro perdita fanno da contraltare, malinconico e commovente, all’intenso desiderio sepolto nella coscienza umana del loro incessante richiamo. Un richiamo da ascoltare e non azzittire, perché se la strada della ricerca della loro pienezza è quasi ardua, quella della mera consapevolezza della loro necessità è semplice e già sufficiente ad elevare l’anima di un uomo, come quello moderno, sempre più alla deriva senza l’accettazione di questa essenza.
La sfuggente opera di Malick, malgrado i suoi difetti, è capace di farsi preghiera e invito, poesia e dono; un dono paradossale in quanto non spiega e dice nulla ma evoca e suggerisce, non offre molto ma si offre in tutta la sua nudità e “piccolezza” recettiva di fronte all’immensità metafisica dell’esistenza, appellandosi all’istinto e alle impressioni dello spettatore più volenteroso. Il film lavora sui non-detti, si muove per sottrazione e ricerca, tra smarrimenti e curiosità.
Malick radicalizza il frequente uso di parallelismi, sinestesie, analogie e metafore per riverberare le incomunicabilità tra gli uomini e i vuoti interiori, le inadeguatezze e le mancanze, i silenzi (anche trascendenti) e le lontananze, il senso di amarezza fallimentare e di insoddisfazione, le inquietudini e i bisogni impellenti. Le scene sono maestose e astratte, fin troppo mistiche e spirituali. La fotografia con i suoi continui contro luce, cattura cromatismi impressionistici, magici e incantevoli, esalta location bellissime, descrive atmosfere, stati d’animo e sensazioni, sposandosi perfettamente con una vibrante colonna sonora che non rifugge musiche classiche. Significativa e rappresentativa è anche la scelta (per molti discutibile) di far parlare ogni attore nella propria lingua d’origine. I pochissimi dialoghi sono sostituiti dalle interazioni dei corpi che parlano al loro posto. I personaggi che parlano soprattutto a loro stessi sono come la costante voce off che parla di Malick all’autore stesso: ognuno si interroga sulle proprie incertezze e mancanze di risposte.
Quel che interessa a Malick è mostrare gli sconvolgimenti interiori attraverso le immagini. Si tenta di stimolare le corde più intime degli spettatori mediante la rilevanza di aspetti formali su quelli narrativi.
Dopo un inizio di sublime potenza visiva e struggente lirismo dove il regista fa danzare la cinepresa attorno ai corpi in movimento di Ben Affleck e Olga Kurylenko, atto ad esprimere tutto il romanticismo per immagini dell’amore, il film perde però fluidità e coesione e, malgrado il finale in linea con l’incipit, l’ultima parte appare debole e inefficace. Non solo: questa volta, purtroppo, la pellicola fatica a coinvolgere lo spettatore e soffre per un eccessivo scollamento tra l’apparato visivo (sempre di straordinario fascino) e l’apparato narrativo ( “assente” in modo inefficace, poiché non risulta mai solidamente rappresentativa della materia che va a trattare): le suggestive inquadrature, rese rapidi dall’accurato montaggio, non bastano ad emozionare e a farci riflettere pienamente sui grandi misteri della vita, ma rischiano (stavolta più delle altre volte) di ridursi a puro estetismo che, a seconda dei gusti irrita, annoia, disorienta o sminuisce le emozioni allo spettatore. L’ambizione sperimentale stavolta si è sbilanciata troppo su uno stile manierato, a tratti compiaciuto, poco fecondo e pretenzioso, che ha reso le immagini un po’ troppo patinate o stereotipate.
Ciò non toglie che il film rimanga comunque un’autentica esperienza multisensoriale, che, al di là di voti, giudizi critici e valutazioni, merita la paziente visione e vale molto più di ciò che potrebbe apparire, toccando come pochissime altre pellicole hanno saputo fare, quel senso del metafisico in modo così sensibile, spiazzante e originale; e stavolta anche con un pizzico di lucida amarezza nell’ammettere la consapevole caducità dell’uomo, della bellezza e della faticosa esplorazione dell’animo umano.
Bisogna solo farsi trascinare dalla libera espressività dell’autore, dalla raffinatezza indecifrabile del film, dall’eleganza di un ritratto tragico e commovente di coscienze e sentimenti, per poter percepire (anche solo a livello inconscio) quel senso di eternità nascosta in ogni cosa e persona; persino se questi dovessero durare solo per un attimo o essere soltanto sfiorati dall’umano sentire. Malick si e ci chiede «cos’è quest’ Amore che ci ama?». Sicuramente non riusciremo a dargli una risposta certa ma, dopo la visione di questo film, potremmo probabilmente affermare che è la Vita stessa e l’unica via da seguire, da ricercare. E’ la più grande meraviglia incarnata in questa realtà, e manifestabile soprattutto nella sua assenza o nella sua lontananza…