“Tra la terra il cielo” (Masaan, 2015) è il primo lungometraggio del regista indiano Neeraj Ghaywan.
Un film-documento di un modo sociale di vivere e di una contrapposizione tra quello che è l’ordinamento precostituito (culturale e religiosa) e ciò che il presente per una certa generazione (faticosamente e vitalmente angosciata) propone nella vita già delineata.
Un porre l’argomento certo coraggioso e senza battiti allegorici con un mescolamento di passioni e di contatti tra persone che si conoscono poco. Un rapporto giovanile in un albergo, un incontro tra due separati da molte differenza. Ostacoli, diffidenze, paure, pericoli, repressioni, corruzione e divisione di ogni tipo in una società di mille contraddizioni. L’India e il patto induista, la vita e Shiva, il bruciare il corpo e il fuoco di una nuova vita: tutto in un susseguirsi di episodi minimi, raccontati ed ereditati.
Terra di contraddizioni, di divisioni sociali, di culture patriarcali, di privazioni e di ragazze che cercano qualcosa mentre i ragazzi paiono intimiditi, legati e privi di una ricerca interiore.
Ecco una stanza e uno studente che sta con una ragazza di nome Devi: stanno facendo sesso per piacere. Una conoscenza via rete. Un dramma e una vergogna per una vita casta e pura. La polizia esegue gli ordini ma il denaro sporco gira in gran quantità tra il padre di lei e un corrotto uomo dell’ordine.
Resta il sangue delle vene, resta il silenzio di lei che subisce, resta il padre che non crede di avere una figlia oltremodo spregevole. Un uomo con modi rudi, vedovo, solo, il suo chiosco senza più la moglie e Devi che crea solo problemi.
Riva piena di roghi quella del Gange, corpi che ardono e teschi che vengono rotti. Le polveri rimangono e gettate nel fiume sacro per un incontro oltre la morte. Il ragazzo Deepak è lì a lavorare per tirare avanti con la famiglia. Sogna un’altra vita, di essere un ingegnere; l’amore verso una ragazza di altra casta chiude e apre il suo stato. Un corpo, una mano, un anello: una tragedia e la morte in un pullman di pellegrini.
Accade che ogni incontro è furtivo, lontano miglia e miglia dal moderno che arriva: ogni gesto nuovo pare insormontabile. Devi e Deepak lontani tra loro e nei loro sogni si incontrano sulle rive del fiume. La disperazione porta loro in un viaggio all’altra riva.
Contemporaneo da far restare fuori; tutto ciò che è nuovo rimane vietato e un qualcosa da combattere. Il film si dispiega in modo live e documentaristico tra gli incroci di vite familiari segnate dal destino.
Incontri casuali in un’India lacerata da pregiudizi e piena di povertà. Un posto governativo e un lavoro per pagare il dovuto e la corruzione che distrugge il padre di Devi.
E il romanticismo s’infrange tra i fumi e le fiamme di un Gange disperatamente in cerca di vita.
La morte e la vita si coniugano in due storie senza un vero perché. Il segno di un’India che cerca di oltrepassare ogni blocco forzato di una società precostituita.
Osteggiato ogni incontro che va appena oltre la tradizione dei padri e ciò che è la rete è impudicizia, sfacelo, oscenità, immoralità. Tutto preordinato: non si può sconfinare oltre il disegno già scritto.
Un film che appare umile nell’impostazione, che non forza le cose e che (forse) abbassa le passioni per lo spettatore. Certo alcune immagini rimangono e quello che dal fiume sacro intravediamo è solo bellezza repressa mentre la vita si trascina tra miseri furori e gioventù inascoltata.
Non è certo una pellicola che si lascia vedere facilmente e le acque ‘tranquille’ del Gange assecondano una ripresa di passo calmo e di virtuosismi poco consoni alla storia stessa. Manca un vero pathos narrativo come percorso tra le due storie. Il finale appare emotivamente coinvolgente ma non certo con tono melò o, per meglio dire, appesantito. (La sequenza pare prestata da un Kim Ki-duk a ritroso).
La regia d’esordio di Neeraj Ghaywan è convenzionale: nessun personalismo per rappresentare ciò che viene vissuto.
Voto: 6½/10.