Diffidate dei film che nascono dalla Grande Idea, cioè da un’astrazione, perché le idee con la I maiuscola sono poche e tendono ad assomigliarsi, soprattutto al cinema. E perché un film non è un trattato di filosofia: dovrebbe campare più che altro di storie e di personaggi. Se il sottotesto diventa più importante del testo, tutto il meccanismo scricchiola.
Transcendence è un film interamente costruito sull’ipotesi/Idea della Singolarità, ovvero sulla possibilità dell’Intelligenza Artificiale Forte e “a seme”.
Qui, per capirsi, occorre fare un piccolo preambolo sui vari tipi di Intelligenza Artificiale (A.I.).
Prima di tutto c’è l’Intelligenza Artificiale Debole: pur in grado di risolvere problemi e svolgere ragionamenti che sono ampiamente al di fuori delle capacità cognitive umane, non ha alcuna consapevolezza di sé.
Poi c’è l’Intelligenza Artificiale Forte, che invece dispone di questa consapevolezza; dalla quale – se opportunamente indirizzata (e qui sta il problema informatico) – potrebbe derivare una volontà ricorsiva (ovvero che ritorna continuamente a operare su se stessa) di automiglioramento (Intelligenza Artificiale a seme). Volontà che, procedendo a una velocità che aumenta esponenzialmente (l’A.I. potenzia costantemente se stessa e quindi il proprio potere di calcolo), porterebbe a uno sviluppo tecnologico drastico e dalle conseguenze imprevedibili, teoricamente semi-divine. Questa è la Singolarità, ed esistono Istituzioni accademiche deputate a studiarla.
È chiaro che si tratta di problemi che stanno proprio sul confine che separa la pratica scientifica dalla pura speculazione filosofica, e che anzi creano un ponte: il loro fascino risiede in questo. Transcendence prova a sviluppare queste suggestioni inserendo dei personaggi funzionali alla teoria. Ovvero un ricercatore universitario (Johnny Depp) che studia l’A.I. e ha trovato un sistema per elaborare modelli informatici dei cervelli dei primati, e la sua collega/moglie (Rebecca Hall). Quando il primo viene avvelenato da un movimento terroristico anti-tecnologico, la donna decide di trasferire la sua mente in un computer e quindi di metterla in Rete, dove sarà in grado di evolvere indefinitamente, fino a modificare addirittura l’ecosistema terrestre.
Se avete l’impressione che sia tutto molto interessante e molto approssimativo (“trasferire la sua mente in un computer” ovviamente non significa nulla, né il film si sforza di fingere il contrario), è perché il film è proprio così: molto interessante e molto approssimativo.
Sul versante action-thriller, lo scontro tra l’intelligenza artificiale e l’apparato militare americano viene messo in scena secondo un climax prima ovvio e poi incongruo, perfino un po’ ridicolo, quando prende una deviazione da horror romeriano. Per di più l’intero FBI è ridotto a un singolo agente in giacca e cravatta, e l’esercito a una decina di soldati con il mitra.
Che Wally Pfister sia un grande direttore della fotografia però non si discute. Qui, al suo debutto come regista, lavora sul contrasto tra l’asettica, ferma lucentezza degli interni hi-tech, e la volubilità cromatica/climatica dei panorami naturali, con una predilezione per l’indole kubrikiana della luce che già si riconosceva in tutti i set ripresi per Nolan. Una messa in scena controllatissima (ipnotica) che serve bene uno script fragile.
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Mi piace
La fotografia di Wally Pfister, il cui occhio non si discute.
Non mi piace
Il soggetto, molto interessante in partenza, è sviluppato in modo troppo superficiale, e nemmeno la componente action-thriller convince.
Consigliato a chi
Cerca una fantascienza più riflessiva, piuttosto che dinamica e spettacolare.
Voto: 2/5
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