Dopo la battaglia di Hong Kong, gli Autobot e Cade Yeager (Mark Wahlberg) hanno alle calcagna la TRF (Transformers Reaction Force), un’organizzazione di stampo militare impegnata a far fuori tutti i Transformers senza badare ai loro ranghi di appartenenza. Una minaccia, in forma di invasione aliena, costringerà un manipolo di coraggiosi a mettersi insieme per fronteggiarla, superando le divisioni interne: i militari dovranno pertanto far fronte comune con Cade, gli Autobot e i Decepticon per il bene superiore di un pianeta ormai in pericolo mortale e sull’orlo della distruzione. Il capo degli Autobot, Optimus Prime, nel frattempo si è invischiato in un viaggio alla ricerca delle sue origini e del proprio creatore, mentre Cade si imbatte in una clamorosa scoperta relativa alle origini medievali dei Transformers e stringe amicizia con un eccentrico ed elegante lord inglese, Sir Edmound Burton (Anthony Hopkins), e un altrettanto britannica professoressa di Oxford, Vivian Wembley (Laura Haddock), sexy, leale e avventurosa…
Il quinto capitolo della saga dei Transformers, ancora una volta diretto dal funambolico e incontenibile Michael Bay, si apre con un flashback pirotecnico ambientato nell’Inghilterra dei Secoli Bui del Medioevo: un campo di battaglia è infiammato da uno scontro senza esclusioni di colpi, tra letali dardi infuocati e ralenti che mettono in evidenza corpi che volteggiano in aria mentre infuriano le cariche a cavallo e gli attacchi mortali. Ci sono naturalmente il prode Re Artù (Liam Garrigan) e Merlino (Stanley Tucci), molto diverso dalla sua raffigurazione tradizionale: ubriacone e tutt’altro che impettito, il celebre mago non ha nulla di eccezionale ma i suoi poteri, come lui stesso rivela, derivano proprio dalla presenza dei Transformers, stanziati poco vicino. 1.600 anni prima della contemporaneità, dunque, i robottoni basati sui giocattoli Hasbro c’erano già e spostavano l’ago della bilancia negli equilibri degli avvenimenti terreni…
Sono saltati letteralmente gli schemi, nell’universo narrativo e tematico che Michael Bay ha portato avanti con zelante e contagiosa passione in questi anni, al netto di tutti i suoi intossicanti eccessi: le fratture infuriano e i fronti sono sempre più sgretolati, gli equilibri spappolati, le coordinate negate. Non sorprende dunque che questo nuovo capitolo della saga, l’ultimo a essere diretto da Bay, provi a tirare le somme dell’intero viaggio imbastendo non solo un percorso a ritroso nelle origini sepolte e lontane delle proprie creature ma anche un compendio spettacolare del proprio immaginario di riferimento, con tanto di ambiziosa cornice annessa. Un percorso dal sapore archetipico, in cui una ragazzina di quattordici anni di chiare e non casuali origini ispaniche, Isabella (Isabela Moner) si ritrova a fronteggiare una minaccia molto più grande del proprio giovane vissuto. Conficcata in una terra di confine che non ammette un futuro né una famiglia («Io non mi faccio adottare», dice questa piccola J-Lo badass), com’è ovvio che sia per un personaggio con tali origini, di questi tempi.
In questo bilancio che sa naturalmente d’addio per il regista, con il prossimo film che viene tuttavia sbandierato in maniera inequivocabile dopo i titoli di coda, il pedale sull’acceleratore è spinto ancora più a fondo e verso nuovi, stordenti orizzonti visivi e coreografici. Le macchina da presa iperaccessoriate e all’ultimo grido presenti sul set, a suo dire, sono sempre due (“come gli occhi umani”, secondo Bay), con la profondità dell’immagine e la sua tridimensionalità a risultare ancor più cinetiche e scultoree del solito, forti di un dinamismo che non concede un attimo di tregua e mescola ironia e muscolarità, protagonisti (almeno una manciata) e spunti. Una logica all’insegna dell’accumulo per l’accumulo, in cui ancora una volta Bay non sembra porsi alcun freno concepibile al di fuori del proprio elettrizzante superomismo e di un’epica futurista che trascenda i corpi, la carne e il metallo per conficcarsi nelle pupille dello spettatore nella maniera più invasiva e travolgente possibile. Addirittura in assenza di gravita, che è anche l’approdo dell’ultima, rutilante mezz’ora di questo quinto capitolo.
Non aggiunge assolutamente nulla rispetto a quanto messo a punto nei precedenti capitoli, Transformers – L’ultimo cavaliere, ma il suo autore non manca certo di intavolare un congegno popolare di grana grossissima capace di fondere insieme le solite pulsioni futuriste, in questo caso con più di un occhio rivolto al passato, e Dan Brown, perché è innegabile che le incursioni esplicative che il film imbocca soprattutto grazie alla sorniona e divertita presenza nel cast di Anthony Hopkins, che fa il pieno di gag linguistiche e di divertissement british, siano chiaramente in scia con lo spirito letterario gigione e il gusto per la digressione a effetto del romanziere de Il codice da Vinci. Il maggiordomo del personaggio di Hopkins, Cogman, è poi l’ennesimo figlio illegittimo della robotica di Star Wars e Vivian Wembley pare invece una perfetta fusione tra la Megan Fox che fu e una Lara Croft con licenza di di sporcarsi le mani con la polvere dell’avventura, di punzecchiare Cade, di vestire come una spogliarellista e di lanciarsi in schermaglie amorose con il personaggio di Wahlberg tutte incentrate su un conflitto stereotipato tra natura e cultura, contrapposte l’una contro l’altra in un fuoco di fila di battute e romanticismo a due dimensioni. Per non parlare delle partite a polo…
Un ibrido femminile che rispecchia perfettamente la poetica di Bay e lo spirito fracassone ed eclettico di una saga che non ammette limiti e parametri di base, costantemente spinti un po’ più in là dal gigantismo onnivoro di Bay: un pioniere della mescolanza chiassosa, dei contrasti stridenti, del tutto che è sempre qualcosa di più della somma delle sue parti, anche a costo di sfiorare l’involuzione, il compiacimento ombelicale, la masturbazione selvaggia. Transformers – L’ultimo cavaliere, perfetto blockbuster estivo, è il primo film interamente girato in IMAX 3D nativo della storia del cinema (una novità assoluta, che solo un titano come Bay, forse, poteva sostenere), si è avvalso di 14 sceneggiatori non ufficiali chiusi in una stanza e il risultato, che mescola Cuba e Stonehenge, il nazismo e un sottomarino da rimettere in funzione, la Namibia e le Badlands americane, si configura non a caso come l’apice di un’eccitazione condivisa, fin dal processo creativo, che denota un’idea di cinema in cui ogni tecnologia sufficientemente avanzata, parafrasando la frase di Arthur C. Clarke esplicitamente citata, è inscindibile dalla magia.
Mi piace: la coerenza dell’immaginario di Michael Bay, portato avanti anche al cospetto di un’accozzaglia di stimoli eterogenei
Non mi piace: una sommatoria di parti il cui tutto non sempre appare sufficientemente giustificato e solido
Consigliato a: i fan della saga e dello stile ipertrofico di Bay
Voto: 3/5
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