Sono passati dei lunghissimi mesi da quando la figlia di Mildred Hayes (Frances McDormand) è stata stuprata e uccisa a Ebbing, Missouri. La donna non ne può più del silenzio e dell’indifferenza nel quale la polizia locale ha fatto sprofondare il caso, sforzandosi secondo lei troppo poco per risolverlo. Mildred decide allora di ricorrere a un gesto estremamente drastico: affitta per un anno tre manifesti della cittadina, in una strada periferica e poco battuta, e vi fa incidere un controverso messaggio polemico rivolto a William Willoughby, rispettato sceriffo locale. Il suo compito è suscitare una reazione e scuotere le coscienze.
A Venezia 74 il nuovo film del regista e sceneggiatore inglese Martin McDonagh, dal titolo evocativo, misterioso e anche un po’ curioso, Three Billboards Outside Ebbing, Missouri, è stato accolto quasi come una specie di miracolo (si sa, ai festival si è sempre molto affamati di commedie, dato l’enorme sforzo con visioni spesso impegnative). In realtà si tratta di un film molto più terreno, probabilmente non il capolavoro di cui si parla, ma senz’altro un film perfetto, una lezione di ironia e crudezza, di cattiva e profondità: tutto insieme e tutto benissimo, con un sorprendente dosaggio degli ingredienti.
Siamo in un periodo storico in cui si parla moltissimo, per ovvie ragioni, di Donald Trump e della cosiddetta America profonda, vero e proprio brand buono per tutte le stagioni pronto a essere sfoderato dall’analista qualunque per fingersi profondo conoscitore dell’anima statunitense, delle sue sfumature e zone d’ombra. Come se l’elezione a sorpresa di Trump avesse con un colpo di spugna mutato gli equilibri di una nazione che anche sul finire dell’era Obama era ugualmente vasta e arrabbiata, specie nelle sue marginali periferie.
Cosa sia l’America oggi e dove stia andando, in termini di emozioni collettive e di umori condivisi, ce lo spiega invece benissimo proprio un film come quello di McDonagh: una dark comedy allo stesso tempo spassosa e serissima in cui riso e pianto si confondono e si sovrappongono in maniera viscerale, facendoci sentire davvero nella pancia dell’America, mossa da una rabbia privata che si rispecchia su questioni e faccende pubbliche.
Quella rabbia che dà vita agevolmente a razzismo, intolleranza e violenze assortite, le stesse sulle quali nel film si riflette tra il serio e il faceto, tra il sorriso nerissimo e la risata sguaiata. Quell’astio, a pensarci bene, che investe in primissima persona la protagonista interpretata da una Frances McDormand in stato di grazia, strepitosa per misura e durezza della sua recitazione ma anche per aderenza fisica e psicologica a un personaggio che è allo stesso tempo vittima e canaglia, lottatrice e terrorista. Scissa tra un dolore estremamente condivisibile per la perdita di una figlia e dei modi di fare bruschi e controversi: un John Wayne al femminile con tendenze feroci. Delle maniere, le sue, che fanno letteralmente esplodere il tessuto sociale e urbano di una piccola provincia a stelle e strisce, nonostante le premesse nobilissime che muovono l’agire di Mildred.
Per tutte queste ragioni Three Billboards Outside Ebbing, Missouri è davvero la faccia triste (e arrabbiata) dell’America contemporanea, un western suburbano di millimetrica precisione antropologica che usa il particolare per parlare del paese in termini universali. Un film tra l’altro scritto benissimo, con una gestione da manuale tanto dei lati oscuri quanto dei granelli di umanità che trovano posto in egual misura in ogni personaggio: nessuna macchietta ma solo archetipi da bar che grazie al cielo mutano e si evolvono nel corso del film regalando sorprese commoventi (su tutti il poliziotto razzista e cretino di Sam Rockwell, bravissimo), alla larga da qualsiasi patetico manicheismo tra buoni e cattivi. Com’è giusto che sia quando il cinema parla alla coscienza del proprio tempo e ancor di più quando lo fa attraverso una saggia, esplosiva miscela di dramma e commedia.
Mi piace: la sontuosa, precisissima, tagliante e sfaccettata sceneggiatura di Martin McDonagh, ancorata a un microcosmo esemplare, efficacissima nel restituire l’arco dell’evoluzione dei personaggi, a dir poco verosimile.
Non mi piace: qualche ruffianeria e civetteria stilistica e un pizzico di compiacimento.
Consigliato a: i fan del grande cinema americano, qui rivisitato da un autore britannico che vi apporta il suo piglio sulfureo e disincantato.
Voto: 4/5
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