Cinque ex membri delle forze speciali derubano un narcotrafficante e scatenano una serie di conseguenze a pioggia che piombano nelle loro vite e mettono a dura prova i rapporti di lealtà e di fiducia nella loro squadra. Con delle conseguenze che non tarderanno a palesarsi, con una buona dose di imprevedibilità e risvolti tragici.
Triple Frontier, il nuovo film di J.C. Chandor approdato su Netflix, è un progetto in cantiere da tantissimo tempo, addirittura dal 2010. A dirigerlo doveva essere Kathryn Bigelow, che alla fine è rimasta a bordo come produttrice esecutiva con la sceneggiatura del fidato Mark Boal, suo collaboratore abituale. Nel cast si sono avvicendati senza successo, negli anni, Tom Hanks, Johnny Depp, Will Smith, Channing Tatum, Tom Hardy e Mahershala Ali.
La versione che ha visto la luce, per la quale Netflix ha acquistato i diritti nel 2017, è invece interpretata da Ben Affleck, Oscar Isaac, Charlie Hunnam, Garrett Hedlund e Pedro Pascal: una sporca cinquina di personaggi che fanno i conti con la tentazione, pienamente abbracciata, di smettere di servire i propri paesi, e nella fattispecie la madre America, per arricchire se stessi, inoltrandosi negli sporchi affari dei traffici di droga con degli intenti e delle pulsioni che con l’eroismo e con la parata di ideali a stelle e strisce non hanno più nulla a che fare. Dopotutto la vita, e in particolare gli Stati Uniti in quanto loro principale committente, non li hanno ricompensati a dovere ed è giunta l’ora di saldare i conti in autonomia, senza passare da ulteriori mediazioni.
Chandor è un regista di chiaroscuri e zone d’ombra, di tensioni morali in grado di fotografare impietosamente l’anima più ombrosa dell’America (1981: Indagine a New York) e di intavolare un cinema vecchia scuola capace di fare i conti con la resistenza fisica (All is Lost, survival movie in mare aperto con Robert Redford). Triple Frontier (la tripla frontiera del titolo è quella tra Argentina, Brasile e Paraguay) conferma da più parti quello che da sempre, fin da Margin Call, è l’evidente nucleo del suo cinema, classico e moderno al tempo stesso.
In questo caso c’è una componente estetica meno marcata nell’approccio alle immagini e una narrazione che predilige dei tempi più calibrati e cadenzati, attenta alla densità degli ambienti e dei luoghi (il film è girato tra le Hawaii e la Colombia). Un esotismo e una ricchezza di spazi naturali che fanno evidentemente da contraltare alle anime silenziose del manipolo di ex militari protagonisti, ormai pienamente convertiti ad anti-eroi. Fino ad amplificare a più non posso la frattura tra il caos morale e interiore che li investe e l’evidente, stordente bellezza degli scenari che attraversano.
In quest’approccio combinato alla natura selvaggia e alle psicologie di uomini in frantumi – due poli che si specchiano di continuo l’uno nell’altro, esplicitando conflitti morali e dilemmi pratici che da pensiero si fanno azione -, sta in buona sostanza la maggiore dose di fascino del film e la sua discreta, accorta efficacia, che procede coi piedi di piombo e approda a un finale in cui tutti i nodi vengono, anche violentemente, al pettine, smascherando ambiguità e colpe.
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