Il cinema americano di impegno civile raggiunge risultati notevoli quando riesce a compensare la retorica industriale con la complessità del ragionamento: Truth addirittura parla di libertà ed etica giornalistica mostrando un gruppo di professionisti – il team di 60 Minutes, storico programma serale di CBS News, “il primo a far soldi” – che mette in piedi uno scoop infilando una sequenza impressionante di approssimazioni e ingenuità, roba che a in certi momenti li prenderesti tutti a calci nel sedere. Quindi fai il tifo e un attimo disapprovi, vedi gli idealismi ma anche le ipocrisie, e tutto questo è incarnato da Cate Blanchett con una varietà di sfumature che potete immaginare, ti stende.
Allora. Giugno 2004, mancano pochi mesi alle elezioni presidenziali americane. George W. Bush corre per un nuovo mandato contro il candidato democratico John Kerry, e un pezzo importante della campagna elettorale sono le reciproche accuse sul loro passato militare. La produttrice di 60 Minutes, liberale e progressista, Mary Mapes (la Blanchett) annusa l’opportunità quando scopre che Bush evitò negli anni Settanta il reclutamento per il Vietnam grazie a una raccomandazione (il padre era già nel Congresso) e a un posto nella Guardia Nazionale. Poi non si fece vedere per un anno, e prese pure il congedo anticipato.
La storia è questa, ma per mandarla in onda servono documenti e testimonianze. La Mapes, insieme ad altri tre giornalisti, fa i compiti e trova quel che le serve, almeno così sembra. Il programma viene trasmesso e la faccia prima delle parole è quella dello storico presentatore Dan Rather (Robert Redford), che sgancia la bomba davanti a milioni di spettatori. Il giorno dopo scoppia il putiferio: lo scoop viene messo in discussione un pezzetto alla volta e la CBS è costretta a ritrattare e scusarsi. Non solo: la Mapes è licenziata, mentre Rather decide di mollare il canale, ma nessuno abbassa il capo prima di aver detto la sua verità.
La materia non è certo incendiaria come nel caso Spotlight (trovate tutto qui), e nemmeno è agevole semplificare la vicenda abbastanza da farne intrattenimento, ma alla fine ne esce una specie di thriller politico centrato sulla libertà di stampa, dove si cava fuori suspense davvero dal niente – qualche telefonata, le decisioni in sala di montaggio, una riunione con gli avvocati.
Il modello è pari pari quello del serial The Newsroom, la seconda stagione soprattutto, il richiamo al senso e al valore della professione è lo stesso; Dan Rather è un Will McAvoy sopra il quale la vita è già passata abbastanza volte da rendere pratico l’idealismo, e le questioni tecniche che riguardano la costruzione di un videonotiziario sono le stesse.
Insomma, il film è bello, anche se (o forse proprio perché) non è semplicissimo empatizzare con i suoi protagonisti.
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Mi piace: perché richiama il senso e il valore della professione del giornalista alla maniera del serial Newsroom. E perché sa creare la suspense dal nulla.
Non mi piace: la difficoltà con cui si empatizza con i personaggi.
Consigliato a chi: ama il cinema di impegno civile.
VOTO: 3/5
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