In Francia è già diventato un caso, lo scorso anno al Festival di Roma – dove è stato presentato Fuori Concorso – ha strappato lunghi applausi e riportato la Capitale alle atmosfere anni ’50, e scommettiamo (più modestamente, ci auguriamo) che anche il debutto nei cinema italiani incontri lo stesso successo. Perché Tutti pazzi per Rose è una commedia deliziosa, che si gusta con piacere e (dis)incanto. Usando una metafora culinaria, un bel confetto che non eccede con lo zucchero ma lascia una piacevole sensazione in bocca. Complici le mode di un’epoca ormai superata ma sempre guardata con ammirazione e nostalgia, che qui arricchiscono la forma senza nulla togliere al contenuto.
Una storia semplice – anche un po’ prevedibile – quella della giovane Rose Pamphyle, aspirante segretaria, goffa ma con un talento speciale per la macchina da scrivere, che viene incoraggiata dal suo capo – Louis Echard, titolare di un’agenzia di assicurazioni – a vincere (Echard è uno spirito agonistico) gare di velocità dattilografica. Siamo nell’epoca in cui la macchina da scrivere era considerato un oggetto di culto prima ancora che uno status symbol e fare la segretaria era «moderno», come ripete Rose; un mestiere ambito, sinonimo di emancipazione sociale e per le più fortunate (e dotate) anche di successo. Dove i concorsi nazionali e mondiali di dattilografia garantivano alle mani più veloci popolarità e contratti milionari con i più importanti produttori di macchine da scrivere. Populaire, non a caso (da qui anche il titolo originale del film), è il nome di quella rosa shocking, all’ultima moda, di cui la signorina Pamphyle diventa testimonial. Perché è a ritmo di oltre 500 battute al minuto che Rose si guadagna le copertine dei magazine, l’ammirazione delle colleghe e anche l’amore.
Il regista Alain Attal, al suo esordio, approfitta della linearità della trama per costruire una commedia brillante, a tratti brillantissima – che perde un po’ di verve solo nella parte centrale, in coincidenza della temporanea separazione tra Rose e il Sig. Echard –, capace di deliziare lo spettatore con i suoi acuti scambi di battute, le espressioni caricaturali dei personaggi, le nuance pastello della scenografia e i divertenti “Cha cha cha della segretaria” che risuonano in sottofondo. Radicata su due protagonisti forti, entrambi determinati, quasi spudorati, espressione di una mentalità precisa: conservatrice e cinica – ma in fondo più fragile – quella di Louis (nonostante le resistenze iniziali, cede all’amore), progressista e orgogliosa quella di Rose, uno dei personaggi femminili più belli del cinema recente. Centrati perfettamente dai due interpreti, Romain Duris e Déborah François (che forse alcuni ricordano in L’Enfant dei fratelli Dardenne); quest’ultima volto particolare (meno bello di quello della collega Bérénice Bejo, qui in un ruolo secondario) che bene incarna l’eccezionalità della sua Rose: una donna che rifiuta le logiche della società patriarcale, sente il bisogno di inseguire la propria libertà professionale e sentimentale, non si piega davanti alle difficoltà e al giudizio altrui e sa perfettamente che «nel 1959 non si aspetta più di arrivare al matrimonio».
Dobbiamo andare avanti a spiegarvi perché sono tutti pazzi di lei?
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Mi piace
Il ritmo brillante, i dialoghi arguti, la centrata ed efficace caratterizzazione dei personaggi, la superba prova degli interpreti, la divertente ricostruzione degli anni ’50.
Non mi piace
Il rallentamento che la storia subisce nella parte centrale, quando si lascia spazio a personaggi e vicende collaterali.
Consigliato a chi
Al pubblico femminile, nostalgico degli anni ’50, sempre in cerca di deliziose commedie romantiche. Ma anche a chi ama il cinema francese, poetico e acuto.
Voto
4/5