Un giorno di pioggia a New York recensione del film di Woody Allen
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Un giorno di pioggia a New York, la recensione del film di Woody Allen

Un giorno di pioggia a New York, la recensione del film di Woody Allen

Un giorno di pioggia a New York
PANORAMICA
Regia (4)
Interpretazioni (4)
Sceneggiatura (5)
Fotografia (4)
Montaggio (3)
Colonna sonora (3.5)

Per Woody Allen non esiste città più romantica al mondo di New York. E i motivi ce li aveva già spiegati dettagliatamente nel prologo in bianco e nero di Manhattan 40 anni fa. Ecco perché quando la bionda Ashleigh informa il fidanzatino Gatsby che le è stata assegnata dal giornale universitario un’intervista all’acclamato regista Roland Pollard  a Manhattan, l’entusiasmo del ragazzo schizza alle stelle. Gatsby, di cognome Welles (meglio abbondare con i cliché ironici), giovanissimo alter ego di Allen interpretato dall’icona della Fresh Hollywood Timothée Chalamet, non vede l’ora di far scoprire alla ragazza (Elle Fanning) i suoi luoghi preferiti della Grande Mela, ma non appena metteranno piede in città i suoi piani andranno in fumo. Ashleigh, tutta presa dalla possibilità di mettere a segno uno scoop, verrà coinvolta dalla crisi artistica del regista da lei intervistato (Liev Schreiber), da quella matrimoniale del suo sceneggiatore (Jude Law) e dall’attrazione fisica per il divo di turno (Diego Luna), mentre Gatsby – piantato in asso – errerà meditabondo per la città sotto la pioggia, imbattendosi in vecchi amici, nella sorella più giovane della sua ex (Selena Gomez), ma soprattutto cercando di evitare in ogni modo l’evento mondano organizzato ogni anno dai suoi genitori.

Il film è una delizia. Primo, perché intriso dell’ironia corrosiva tipica dei film alleniani prima maniera, riconfermando a 83 anni anni suonati l’esplosività della sua scrittura con dialoghi che sono una mitragliata di punchline. Vera ginnastica per l’intelligenza e l’umore, che rimpiangeremo amaramente quando il buon vecchio Woody passerà a miglior vita. 
Secondo, perché qui più che mai alterna battute a considerazioni filosofiche spesso amare, diventando quasi il trattato esistenziale del regista, con cui proclama attraverso la ricerca personale di Gatsby il suo bisogno di autenticità e l’odio nei confronti degli atteggiamenti opportunistici e di facciata.
Il ragazzo è scappato da un’università dell’Ivy League e si è rifugiato in un fittizio college campagnolo, perché non gli interessano i vacui discorsi dell’Upper Class sulle fluttuazioni dello yen o le tendenze modaiole, così come detesta le pressioni della madre che lo spinge a frequentare gli ambienti giusti e cerca di modellare la sua vita. Per non parlare della scarsa stima che Allen dimostra nei confronti della gente di cinema: dal regista arthouse che vuole mandare all’aria il suo film all’attore latin lover che ci prova con la ragazzetta di provincia, la fiera dell’egocentrismo e della pochezza. 

Se non nella posizione sociale (come ben mostra nell’incontro con l’odioso ex compagno di scuola che si vanta di studiare medicina), non nella fama e tanto meno nei soldi, che Gatsby getta con disprezzo su un tavolo dopo una grossa vincita a poker, dove trovare un senso? 
Nella bellezza, senza dubbio. Quella che risiede nella cultura (la cui fame il film alimenta), nella letteratura, nell’arte, nel cinema e nella musica suonata nei pianobar dei vecchi alberghi contrapposta alla volgarità e al provincialismo odierni, ben rappresentato quest’ultimo da Ashleigh, figlia di ricchi banchieri dell’Arizona frastornata dalle sirene della celebrity che cita Kurosawa tra i massimi registi europei.  

E nella verità. Quella cruda, senza abbellimenti, che esce a un certo punto dalla bocca della madre di Gatsby, spazzando via tutte le incertezze del ragazzo e spingendolo tra le braccia del Destino. Che, sin dagli albori, con gli ostacoli e le fatalità che sparge lungo il percorso, è il vero motore di tutto il suo cinema. Più che mai in questa ronde senza fine di incontri mancati, al termine della quale, però, Gatsby troverà il suo happy ending come nelle vecchie commedie d’amore alla Cukor, il cui tono apparentemente lieve l’autore prende in prestito per il suo film forse più ottimista di sempre, in cui la felicità va incontro a chi decide di vivere nei luoghi e con le persone che più gli somigliano. 

Un vero gioiello illuminato dalle luci di Storaro, che gli americani purtroppo non vedranno e che in patria è già stato massacrato dalle recensioni moraliste dei principali critici. Per non parlare dei suoi giovani interpreti che si sono dissociati – chi più chi meno – da un film, in cui Allen ha ricamato per loro dei personaggi memorabili: Chalamet, bello e tormentato come un giovane Holden, colleziona scene iconiche (tra tutte quando suona e canta al piano Everything Happens to Me di Chet Baker); Fanning, adorabile mix di candore e opportunismo, che rivela un grande talento comico; e Gomez, perfetta nel ruolo della ragazza grintosa che spara battute al vetriolo. 

Non approfittare di questi giorni di pioggia per vederlo al cinema qui in Italia, dove finalmente è approdato dopo un anno di attesa, sarebbe un peccato mortale. 

 

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