Se un piccione appollaiato sul ramo di un albero osservasse l’umanità, cosa vedrebbe? Sembra questo l’interrogativo che muove Un piccione seduto su un ramo riflette sull’esistenza, il film di Roy Andersson vincitore alla scorsa edizione della Mostra del Cinema di Venezia che chiude la trilogia iniziata quindici anni fa con Canzoni del secondo piano.
Il piccione in questione, un uccello imbalsamato e chiuso nella teca di un museo, immobile ma più vivo dei visitatori che lo osservano, è l’alter-ego metaforico dello spettatore cinematografico, chiamato dal regista a collocarsi, idealmente, in una posizione liminare, sulla soglia di quanto accade nel film: mai troppo dentro e sempre un passo fuori per mantenere il distacco di una testimonianza e di un giudizio vigile ma invisibile.
Un piccione racconta, in 39 quadri fissi, l’apocalisse esistenziale dell’umanità attraverso una serie di situazioni banali e alienate, tratteggiate dall’incomunicabilità e dall’assenza di compassione. I personaggi, tutti uniformemente comprimari in questa narrazione dell’esistenza dal respiro universale e astratto, sono una galleria di walking dead cerei in volto e inespressivi, immersi in ambienti asettici e squallidi, luoghi tinteggiati dalla piattezza cromatica e cadaverica dei beige e dei verdastri, colori che mettono in evidenza la matrice pittorica cui Andersson si ispira, quella vicina nella composizione, agli artisti di guerra, specialmente ai volti pingui e grotteschi di Otto Dix.
Dopo un interludio tripartito che, come in un morality play, squaderna i temi portanti del film, l’insensibilità umana davanti alla morte, il soffocamento di ogni pietà e sentimento a favore di un egoismo di fondo e di appetiti puramente individuali e materiali, Andersson mette in moto i suoi personaggi e li guida attraverso il presente e il passato in una dimensione sospesa, onirica, di attesa del nulla, quasi beckettiana, e quindi ironicamente amara.
Accolto dalla critica favorevolmente già a Venezia, il lavoro di Andersson, una raffinata analisi sul disastro della Storia e sui crimini dell’homo sapiens narrata con distacco super-realista (cioè al di sopra della realtà), non ha entusiasmato altrettanto il pubblico che lo aveva visto dopo la premiazione. La rappresentazione intellettuale e coltissima, dietro cui si intravedono tanto le radici comiche della farsa, quanto quelle del teatro dell’assurdo, tanto una revisione critica della storia nazionale svedese (con una rappresentazione caricaturale del monarca Carlo XII), quanto un memoriale sui genocidi (la scena del colonialismo è un ossimoro sublime di distruzione e di disastrosa bellezza), rischia di risultare ostica a uno spettatore che non possiede le chiavi testuali di cui il regista si serve per scrivere il suo film.
L’astrazione di Andersson, che predilige nella sua dichiarazione d’intenti lo straniamento e che rifugge da ogni compiacimento nei confronti del suo interlocutore, può dunque avere un effetto respingente per il pubblico in sala. Se di fatti l’obiettivo ricercato dal regista è quello di far rimanere lo spettatore appollaiato, come il piccione, su un ramo a riflettere, il rischio è che questi non riesca a superare pienamente la soglia del film e che, rimanendone al di fuori, venga sopraffatto dalla monotonia amara e dalla lentezza esangue e vacua delle storie raccontate.
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Mi piace: la precisione e la compostezza pittorica del quadro. L’ironia amara e a tratti impercettibile. Il senso dell’arte e del bello calato nel disastro.
Non mi piace: l’incedere lento e talvolta sonnambulo della narrazione. La difficoltà a entrare nel film e a rimanerci.
Consigliato a: chi ha ironia sottile e sa contemplare un film come un dipinto.
Voto: 3/5
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