Una giusta causa: la recensione di loland10
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Una giusta causa: la recensione di loland10

Una giusta causa: la recensione di loland10

“Una giusta causa” (On the Basis of Sex) ,2018) è il quinto lungometraggio della regista di Mimi Leder.
Film di fruizione non semplice e di amalgama non perfettamente riuscito.
Nel 1956 essere in dote all’università prettamente maschile, in controtendenza e di sesso opposto sembrava una pena già indicibile prime di ogni processo. Essere donna e iscritta ad Harvard tra centinaia di galoppanti maschi e tre sole sedere tra sguardi arroganti, inferociti, o per lo meno sognanti. Ecco che il sesso femminile muove le prime armi in una battaglia lunga e per nulla facile. Tutt’altro. Anche se la ‘Columbus’ offre a Ruth il suo sogno .
Film implosivo, poco accattivante, linearmente assonnato, idealmente retorico e, in sincera goduria visiva, leccato al gusto invero di sale insufficiente.
Parte con musica altisonante, da fanfara, esclusivo e senza code dietro: ecco una vista particolare su una ‘provincia’ americana che attende una rivincita, una famiglia che aspetta e una madre che vuole ridisegnare un diritto comune. Parità uomo-donna e giustizia dei diritti per tutti/e.
Certo è non un film appassionate con una tenuta non sempre all’altezza; ma l’idea centrale riesce a spalmarsi lungo il racconto per cercare di tenere viva l’attenzione dello spettatore (non molti in una sala d’essai per una serata ordinaria).
Diviso tra situazione familiare, racconto biopic e atti processuali. Non sempre la miscela riesce lasciando lo spettatore ora preso, ora sognante di altro, ora infreddolito e ora partecipe per un finale non certo entusiasmante.
Una donna avvocato, Ruth Bader Ginsburg, che fa giurisprudenza per un figlio adulto, non sposato che accudisce la propria madre in stato semi vegetativo. I diritti equanimi tra chi custodisce i genitori a casa per avere una legge giusta non fa differenza tra una donna e un uomo. I risarcimenti morali e poi quelli economici: così la storia di due persone qualsiasi della provincia americana ha il destino di essere apripista per una signora che dibatte il caso, con suo marito anche lui avvocato, presso il tribunale di alta corte di New York. Senza giuria: è un confronto diretto tra i fatti e le leggi vigenti, la vita cambiata e gli emendamenti della costituzione a stelle e strisce.
Comodo e senza grandi salti, con discussioni e stile ‘investigativo’ che conosciamo. Con un aggiustamento lungo il percorso: la figlia in lite, il padre Marty che risolve e la madre con toni perentori sembrano situazioni che non lasciano molto segno come la preparazione del processo in casa, con aiuti esterni importanti e finte approvazioni familiari. E quando Jane risponde in modo perentorio e ‘volgare’ a certi beceri richiami di alcuni operai, Ruth pare bagnata, non dalla pioggia che cade fortemente, ma dalla ‘foga’ filiale e dalla schiena diritta di un marito che ha superato una prima avvisaglia di malattia pericolosa.
Dal 1956 ai giorni nostri le cose sono cambiate molto e la giurisprudenza ‘statunitense’ mette un altro tassello ai diritti del ‘genere’ umano. Ecco la parola di distinzione ‘sessuale’ sembrava un modo orrendo di giudicare e di equiparare.
I titoli finali con foto reali, storie, vite, percorsi e personaggi danno il giusto senso a tutto.
Si ripete un film anche necessario ma non sempre ficcante nella riuscita degli intenti.
Felicity Jones (Ruth Ginsburg) appare brava e impacciata, lieve e idonea come il personaggio richiede non affiancata da una scrittura importante.
Regia quasi monocorde e non sempre in volo, angusta e volitiva.
Voto: 6 (**½)

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