Una notte da leoni 3: la recensione di MBacciocchi
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Una notte da leoni 3: la recensione di MBacciocchi

Una notte da leoni 3: la recensione di MBacciocchi

Nuova formula, senza il consueto folle post-sbornia (hangover) ma con la solita squadra composta dalle medesime facce, per l’ultimo capitolo della trilogia comica che negli anni ha acquisito sempre più successo diventando un vero e proprio cult per gli amanti del genere.
In questo terzo atto, la cui trama si discosta nettamente dai precedenti, manca la causa scatenante che ha sempre dato il via a tutte quelle folli gag in cui i protagonisti, intenzionalmente o meno, si ritrovavano coinvolti; gli eventi sono direttamente collegati al primo capitolo, come se i postumi di quella prima notte devastante, vissuta nel Caesars Palace, non fossero ancora scemati del tutto.
Ecco allora che torna il Doug nero, scagnozzo del malavitoso Marshall (J. Goodman), che irrompe sulla scena a suon di flashback, e ricatta il “branco” per far sì che quei tre folli recuperino i lingotti d’oro rubati al suo boss: in gioco c’è la vita del Doug bianco che, come al solito, viene portato via dalle scene. La debolezza della sceneggiatura è evidente ma, per questa volta, si può anche sorvolare: del resto, quando si entra in sala per pellicole del genere, non è lecito fossilizzarsi più di tanto su questi aspetti più “tecnici”!
Dietro il furto d’oro chi può esserci se non il diabolico e perverso Mr. Chow, autore di una rocambolesca fuga dal carcere di massima sicurezza di Bangkok, in cui vi era rinchiuso a seguito degli eventi del capitolo precedente? Il film acquisisce così un tono decisamente più action, caratterizzato da inseguimenti azzardati, interrogatori imbarazzanti ad ex-prostitute e discese verticali sulle pareti esterne dei palazzi di Las Vegas, per concludere in bellezza con carneficine di criminali infuriati.
Il perno della pellicola è sicuramente il personaggio di Alan, quel “panzòne” di Galifianakis, che, da vero protagonista e sempre al centro di ogni vicenda, tiene da solista le redini della commedia, a tal punto da eclissare la presenza dei suoi fedeli e insofferenti amici. Nascono così scene di reale divertimento, assoli di comicità pura, gestiti interamente da quel bambinone, tanto barbuto quanto problematico, di Alan, che di volta in volta trova una spalla, necessaria per inscenare una moltitudine di duetti comici, in una giraffa, in suo padre, in Chow stesso (spassosissima la corrispondenza tra i due), nei suoi compagni e, per finire, in una versione femminile di sé. Forse questa potrebbe essere la volta buona anche per lui per mettere la testa a posto, per diventare adulto e lasciarsi alle spalle tutte le scorribande che per ben tre volte hanno allettato gli spettatori di tutto il mondo. Forse è davvero così, ma il finale non ammette riserve: i nostri (anti-)eroi non sono cambiati di una virgola e di sicuro mai si svincoleranno da tutte quelle str***ate da irresponsabili.
Scene cult: il canto angelico di Alan al funerale di suo padre, l’incontro con la sua dolce metà, la folle corsa in autostrada con la giraffa.
Successo di pubblico assicurato. Piacevole!
VOTO: 3/5

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