“Una storia senza nome” (2018) è il sesto lungometraggio del regista-scrittore palermitano Roberto Andò.
Un film leggero, ironico, da commedia vestito in giallo, misto-tutto e per certi versi godibile.
Già molto per una pellicola che tende molto a piacersi e a darsi arie vintage per instradare storie e volti, doppi e finti cloni nel cinema dentro il cinema prendendo spunto da un fatto reale e da luoghi ora bui, ora dolci, ora odor di mafia e ora odor di successo. È la droga del finto che vuole darci la spinta per vederci allo specchio. In modo irridente ma anche in modo stratificato parlando di doppi giochi e di corruzioni con misure diverse e idioti spudorati.
Il regista adocchia il ‘furto’ della Natività del Caravaggio (1969 a Palermo) da parte della mafia e di cui il mistero resta fitto per allargare, in modo a mo di arioso, sul fare un film da una sceneggiatura dettata e scritta per interposta persona, venduta e che darà fastidi al produttore e alla conclusione dell’intero film.
Per goderselo in platea in mezzo a tanti, in mezzo ai veri e agli attori che recitano il falso reso ironicamente vero.
Episodi incastonati quasi a puzzle con musiche roboanti che dettano cambi di registro o presunti svelamenti del cinema stesso. Marco Betta, tra modernismo e classicismo da camera, riesce a dare un piglio sui generis alla pellicola abbellendola dove poco c’è da dire dando quasi un timbro all’intera operazione dentro e dietro la macchina da presa.
I ritrovi e le porte semichiuse a Palazzo Chigi, gli incontri di cui non nessuno deve sapere, le nubi tra politica e mafia sono indignazioni ridanciane e scherzose dove il gusto della verità si trincera dietro a maschere e a patti di idiozia strisciante. Un modo retrò e classico, vivo e scanzonato che fanno della scrittura qualcosa di diverso dai soliti stilemi. Un film che appesantisce se stesso, parlando del proprio per cercare di alleggerirlo.
Certo chiudere il cerchio, dietro un’opera aperta alla scrittura del cinema, il farsi soggetto, i fogli che si fanno sentire tra le dita, la sceneggiatura in corso, il finale che manca non è semplice. Tra ghost writer e gioco, assegni e ciak, volti rigati e sangue, la mafia sta lì dentro e vuole nascondere il tutto fino ad una ‘Natività’ trafugata e ad oggi da mistero. Un film in cui l’ambizione fa spesso capolino e la ripresa spazia in ogni derivato di genere (con allerta per chi guarda).
Il cast variegato non è tutto all’unisono per la riuscita dell’intera operazione:
Micaela Ramazzotti (Valeria) non va oltre il suo personaggio, non riesce pienamente a centrarlo o meglio non è forse un’attrice che per un ruolo a tutto tondo non riesce a reggerlo per l’intero film?
Renato Carpentieri (Alberto Rak), invece, ruba la scena tutti: l’aria sorniona e suadente, vegliarda e ironica taglia lo schermo facendosi ricordare e bene. Una recita vigorosamente misera e umilmente incisiva. È il cursore del tutto (meno male…).
Alessandro Gassmann (Alessandro Pes) non coglie tutta la gamma del suo interagire. Si ha la sensazione di questo esserci e di piacersi troppo senza andare oltre. La verve non manca forse la regia pecca nell’inquadrarlo per bene…
Laura Morante (Amalia) è la nota a piè pagina, si potrebbe dire, della scrittura che si sta formando durante il film e del recitare verso una figlia che adocchia il produttore. Una madre che non sa nulla e si meraviglia (per il poco che desidera) di una storia intrigante e dentro le sue mura.
Antonio Catania (Vitelli) riesce a centrare il suo ruolo; un attore quasi mai adoperato pienamente nel cinema italiano. Sempre da spalla e riesce a venire fuori comunque. Complimenti.
Jerzy Skolimowski (Jerzy Kunze) fa se stesso e inquadra il set per darlo allo spettatore.
Gaetano Bruno (Diego Spadafora) ricuce in ogni dove per il suo nome sulle labbra dio molti.
Regia di ordinaria compiacenza e di fervore narrativo (i gusti di tanti generi).
Voto: 6½/10.