Sawyer Valentini (Claire Foy) è in fuga da un uomo che la perseguitava, uno stalker che le ha segnato in negativo la vita. Per evitarlo ha iniziato un nuovo lavoro in un’altra città. Il suo equilibrio psichico continua però a essere in frantumi e la donna si rivolge così a una clinica psichiatrica: rimarrà invischiata in un gorgo di paranoia senza fine, specialmente quando scopre che il suo aguzzino si è fatto assumere nel personale della struttura…
Pochi cineasti possono vantare l’eclettismo e la sensibilità industriale di Steven Soderbergh. Forse nessuno, nei modi e nelle forme in cui lui l’ha vissuta e sperimentata, dalla Palma d’oro per Sesso, bugie e videotape all’Oscar per Traffic passando per infinite sperimentazioni visive, tematiche, linguistiche. In un limbo di eterna transizione tra il mainstream e l’arthouse, l’invenzione e la strizzata d’occhio, l’avventatezza e la coscienza – mediatica, innanzitutto, ma spesso anche allucinatoria – del cinema contemporaneo e dei suoi codici.
Unsane è l’ennesimo banco di prova rivelatore per il poliedrico e multiforme regista degli Ocean’s e della strabiliante serie The Knick: un thriller ansiogeno girato interamente con un iPhone 7 Plus, un frammento impazzito in cui il mezzo diventa veicolo intimo e distaccato, onnipresente e sconcertante di terrore e ossessione. «Pensa al cellulare come al tuo migliore amico», dice Matt Damon, storico compagno di merende di Soderbergh, alla protagonista in un folgorante cameo. Ma è ovvio che questa frase cela tutta l’ironia di un prodotto che si pone in una zona grigia e franca, dove i linguaggi si intersecano (l’horror manicomiale coi nuovi media) e tutto si confonde nella testa della protagonista, aliena tra gli alieni, in a stranger city.
Lucidissimo, in compenso, è il polso del regista sulle immagini flagranti che maneggia: i media sociali e lo smartphone azzerano le distanze ma moltiplicano le possibilità di essere tracciati, tallonati, massacrati in pubblico e in privato. Non è un caso che Unsane sia un horror precario proprio perché quotidiano, velenoso e farmacologico, come già Effetti collaterali e il sottostimato, perturbante Contagion (era il 2011, a certificare la crisi economica globale).
In Unsane si ride del cancro e della morte («Hail Satan!») trasformando un one-night stand su Tinder in un’infernale sessione d’angoscia in interni, amplificata dall’uso del grandangolo, distorsivo in scia alla lezione di INLAND EMPIRE – L’impero della mente di David Lynch (un inevitabile punto di non ritorno, per il digitale e per il cinema tutto).
Un’eterna, interminabile, lunghissima notte, che non è solo quella del dating online ma dura di fatto per l’intero film. Dove sentirsi al sicuro non conta, la volontà è azzerata e il prontuario dei farmaci ridotto all’osso più che mai, in questa desolata e paradossale terra di nessuno di predatori tutelati e bersagli non protetti, così attuale e così universale nella confusione di vittime e carnefici: al colmo della follia, la resistenza al contatto umano, figuriamoci a quello amoroso e sessuale, è tutto ciò che resta (e di macerie si tratta).
Insieme, forse, al blu di una malinconia posticcia, che apre il film tra i boschi e torna improvvisamente nel finale, sgranatissimo e deformato all’inverosimile. A ribadire la menzogna pessimistica che sta dietro al sentimento degli anni zero, le macchie umane che rendono le nostre comunicazioni digitali martellanti, superflue, cadaveriche.
Mi piace: la capacità del multiforme e instancabile Soderbergh di confrontarsi col linguaggio dello smartphone e con le dinamiche della tensione e della contemporaneità
Non mi piace: i colpi di scena piuttosto telefonati e qualche comunque trascurabile buco di sceneggiatura nel copione
Consigliato a: chi è in cerca di un cinema horror spiazzante, originale, innovativo e attuale per forma e contenuto
Voto: 3/5
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