Dal cosmo profondo -il nero dello schermo- emergono immagini che raccontano la storia dell’umanità nello spazio, dal 1975 con l’incontro pacifico tra astronauti provenienti dai quattro angoli della Terra, all’espansione del formato per trasportarci nel futuro più remoto che possiamo immaginare, nel 28esimo secolo, ai quattro angoli dell’universo. Space Oddity è l’inno di speranza che accompagna il divertente montaggio di strette di mano tra umani ed alieni, di anno in anno, mentre l’ISS cresce e si trasforma in Alpha, la città dei Mille Pianeti del titolo. Quando Ziggy Stardust cadde sulla Terra il futuro e lo spazio sembravano una promessa di pace e colori, un immaginario di luci al neon e glitter che incrementato dal mito dell’uomo sulla luna ed è proprio in questo solco (a)temporale, così distante da noi più per stato d’animo che effettiva spazio-temporalità, che si colloca Valerian e la Città dei Mille Pianeti. Dopotutto, Luc Besson torna al genere Space Opera dopo vent’anni dal cult Il Quinto Elemento, adattando una fortunata serie di fumetti del 1967, Valérian et Laureline, portandosi dietro, purtroppo, tutti i cliché e gli stereotipi del genere. Perchè, se per sopravvivere il cinema necessita più che mai di narrare per immagini, mostrare reinventandosi nei linguaggi e meccanismi che gli sono propri, il resto del film non si dimostra all’altezza di questa sequenza d’apertura, sovraccaricando lo spettatore di immagini prive di sostanza e di un reale plot a cui appoggiarsi.
Nel raccontarci di questa fantastica utopia, minacciata dalla solita lotta dualista tra bene e male, Besson ci bombarda di paesaggi immaginifici, orizzonti narrativi che non lascia il tempo di esplorare e metabolizzare, ma che sembrano anzi moltiplicarsi in una sequela potenzialmente infinita -come il maggiore Valerian che attraversa tutta la stazione Alpha sfondando, di parete in parete, una vastità di universi saturi di colore e stravaganza. Una fantasticheria visiva in cui lo spettatore si perde, sfiancandosi sul finale, come si perdono i due personaggi protagonisti (Dane Dehan e Cara Delevigne)… fuori dalla trama principale per quasi l’intera durata del film.
Valerian e Laureline lasciano infatti le redini della narrazione portante a personaggi secondari privi di un reale spessore per impantanarsi in una sottotrama di salvataggi reciproci, inutile per la risoluzione del conflitto, estenuante dal punto di vista del minutaggio. Incrociano il cameo altrettanto superfluo di Rihanna, utile solo a gonfiare ulteriormente quella logica di attrazione mostrativa di cui il cinema blockbuster è vittima negli ultimi anni -la cantante s’improvvisa trasformista in una sorta di bordello 2.0 sfoggiando una quantità di outfit che potrebbero tranquillamente essere usciti dai suoi videoclip musicali-. Solamente alla fine, nell’ultimo quarto d’ora circa della pellicola, i due viaggiatori spazio-temporali ritornano in carreggiata solo per ribadire il messaggio già ampiamente sfruttato dalla produzione di questo genere: sventano i crimini dell’uomo bianco/colonialista colpevole di aver distrutto anni prima il mondo degli alieni Mul, ritenuti sacrificabili.
Anche suddetti Mul, simili alle figure longilinee dei pittori surrealisti, che strizzano l’occhio ai Na’vi di Avatar da un lato e dall’altro, per organizzazione gerarchica e costumi, alle popolazioni indigene africane, non fanno che perpetuare lo stereotipo del Bon Sauvage di roussoniana memoria, in armonia con la natura in cui vive, portatore di una dimenticata, semplice filosofia del vivere. Ed anche se il riscatto politicamente corretto giunge al termine, il messaggio risulta come depotenziato del suo valore, relegato com’è agli ultimi minuti del film, nelle bocche di due giovani, anch’essi bianchi. Apportare spunti di riflessione sulla realtà e sulle sue problematiche è elemento connaturato nella fantascienza, ma il messaggio dev’essere forte o, quantomeno, chiaro. Valerian fallisce proprio su questo punto, colpa forse di personaggi bidimensionali che scompaiono in confronto alle prodezze della computer grafica, personaggi a cui non riusciamo ad affezionarci poichè le loro motivazioni si confondo con il loro agire.
Se Besson avesse sfruttato di più l’immaginario pop a cui sembrava riferirsi nella sequenza d’apertura del film, se avesse colto l’occasione per esplorare più a fondo questo immenso parco giochi dell’impossibile, a quest’ora non avremmo l’ennesimo film che, nonostante il budget mostruoso (quasi 198 milioni di euro) non riesce mai ad arrivare dove deve, ovvero al cuore del pubblico, ma soltanto ai suoi occhi… spaesandoli.
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