A ventidue anni di distanza dal biopic su Jean-Michel Basquiat, l’artista Julian Schnabel è tornato a confrontarsi con il film biografico dedicato a una figura creativa segnata in maniera indissolubile dalla smania autodistruttiva di una personalità priva di argini, incapace di gestire i propri eccessi.
L’occasione gli è arrivata da At Eternity’s Gate, uscito in Italia col titolo Van Gogh – Sulla soglia dell’eternità e dedicato, naturalmente, al grande pittore olandese e nella fattispecie agli ultimi anni della sua vita, dal soggiorno ad Arles, in Provenza, fino all’arrivo nell’ospedale psichiatrico di Saint-Rémy.
A interpretarlo c’è il sessantenne Willem Dafoe, chiamato a incarnarne il tormento e l’isolamento, l’isolamento e le miserie affettive ed economiche cui Van Gogh andò incontro in vita. Senza però trascurare l’aspetto forse più importante e imprescindibile della sua figura, ovvero il furore quasi mistico del suo passaggio sulla terra (un aspetto sul quale, graficamente e cristologicamente, il film insiste molto), della traccia che egli ha lasciato nella storia dell’arte e nell’immaginario collettivo.
A cominciare dalla scelta dell’attore per portarlo sul grande schermo, quello di Schnabel è un Van Gogh postumo (l’artista post-impressionista è morto infatti a 37 anni), che non teme le incongruenze e soprattutto intende fornire, attraverso le immagini proposte, un raddoppiamento dell’arte del maestro originario dei Paesi Bassi. Non a caso ci ritroviamo davanti agli occhi un prodotto convulso e traballante nelle immagini e nello stile, che vorrebbero restituire, attraverso un dinamismo privo di baricentro, la dannazione, i fantasmi e i vuoti interiori dell’uomo dietro la leggenda.
Un proposito che il film affronta in maniera piuttosto sincera e spontanea, con una volenterosa adesione attoriale di Dafoe all’icona (la Coppa Volpi conquistata alla Mostra del cinema di Venezia, da questo punto di vista, non è affatto generosa), ma anche con un impianto visivo e cromatico piuttosto stucchevole proprio perché ridondante, esornativo, di riporto (sebbene il protagonista non faccia rimpiangere Kirk Douglas e nessun altro interprete passato di Van Gogh, compreso il sorprendente Martin Scorsese in Sogni di Akira Kurosawa).
Al film di Schnabel sembra mancare un azzardo personale e un’appropriazione reale di Van Gogh, ma è un’operazione, se ci si accontenta, in tutto e per tutto diligente, a suo modo esaustiva: c’è l’amicizia con il celebre collega Paul Gauguin, interpretato in maniera volatile da Oscar Isaac, una certa scolasticità non priva di sentimento nel raccontare il rapporto (decisivo) col fratello Theo, incarnato da Rupert Friend, fino ad approdare a un epilogo in cui si propone un’interpretazione decisamente inedita e non certo maggioritaria dell’epilogo della vita di Van Gogh e del suo suicidio.
Un ultimo, ulteriore elemento di interesse, rilevante, un po’ come tutta l’operazione, sul piano più contenutistico che formale, a dispetto dei tanti rimandi visivi cristologici cui si accennava (i piedi, i passi, il calvario) che non possono non rimandare, in maniera extra-testuale e in un curioso intreccio di riferimenti, a L’ultima tentazione di Cristo del già citato Scorsese, interpretato a suo tempo dallo stesso Dafoe.
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