Giulia De Martino abita in una cascina dell’Emilia Romagna insieme al padre Mario e al fratellino Nico. Nelle sue vene scorre la passione di famiglia per i motori, e infatti la ragazza è una promessa delle gare su pista guidata dal padre, meccanico e mentore, fino a quando quest’ultimo muore colpito da infarto durante una gara.
Giulia, in assenza della madre (che è sparita più volte dalla sua vita), si ritrova d’improvviso con un fratellino a carico, un’ipoteca sulla casa che il padre le ha lasciato in eredità (con conseguente necessità di vincere il campionato Gran Turismo a tutti i costi) e un fratello maggiore, Loris, che accampa diritti sul patrimonio paterno.
Lei, astro nascente piena di grinta e maturità, lui, vecchia gloria appannata che ha sperperato i suoi talenti con le droghe pesanti, non potrebbero essere più distanti, ma trovano un terreno comune in quella passione per l’alta velocità che scorre nel DNA di famiglia. Trenta euro al giorno sono la cifra sufficiente a garantirsi l’aiuto del fratello come nuovo preparatore. E, a sua volta, per il Ballerino (il soprannome con cui era stato ribattezzato nei giorni della fama) è una nuova opportunità per distanziarsi dall’orlo del precipizio su cui è in equilibrio precario da tempo.
Erano anni che si rivendicava il ritorno a un cinema di genere, popolare e trascinante che facesse dell’intrattenimento senza sofismi il suo perno, non per questo rinunciando alla qualità. Anni che si guardava ai cugini francesi capaci anche di esportare grandi successi oltre i confini: Quasi amici, Cena tra amici e La famiglia Belier gli esempi più lampanti, mentre noi rimanevamo incastrati in binari sempre uguali. Una sorta di incapacità a reagire che ha iniziato a interrompersi con Smetto quando voglio (versione italica e goliardica di Breaking Bad), si è trasformata in emulazione raffinata con Lo chiamavano Jeeg Robot (il superhero movie che parla romanesco), ha raggiunto il picco con Perfetti sconosciuti (un soggetto originalissimo e un cast d’eccezione che ha conquistato 16 milioni di euro al botteghino) e che ora si confronta con il motor movie, sorta di Fast & Furious/Rush all’emiliana. E se una rondine non fa primavera, un piccolo stormo autorizza a parlare di inversione di marcia e voglia di emancipazione.
Veloce come il vento è molto di più che un film sulle gare automobilistiche: le corse non sono che un pretesto per mettere in scena un dramma famigliare, così come in Rocky il pugilato faceva da sfondo a una storia di riscatto che costava lacrime e sudore. E anche se qui la fatica e l’allenamento pesano sul corpo acerbo e il collo da colibrì di Giulia, a giocarsi la seconda chance della vita è in realtà Loris, loser da troppo tempo alla deriva.
Volano sul serio le auto sul circuito di Monza, Imola e Vallelunga e sulle strade cittadine di Matera con al volante piloti sprezzanti del pericolo, o meglio disperati, che si giocano il tutto per tutto e dove il circuito diventa metafora di quella strenua lotta che si ingaggia con se stessi (per superare i propri limiti) e la vita. Da applauso anche la cura con cui si restituisce la liturgia della preparazione alla gara, quando i due fratelli ripassano ogni centrimentro e dettaglio della pista con relative scalate e accelerate.
L’esordiente Matilda De Angelis, di 17 anni, ha il phisique-du-rôle perfetto per questo ruolo da piccola guerriera (con tanto di taglio rasato tinto di blu) e per il quale non a caso è stata accostata alla Jennifer Lawrence di Hunger Games. Mix perfetto di fragilità e determinazione, di bellezza e personalità, fa da degno controcanto all’istrionica performance di uno strepitoso Stefano Accorsi, che per l’occasione si è imbruttito con denti marci, dimagrendo 10 kg e assumendo per la maggior parte del tempo un’espressione persa da vero tossico, oltre ad aver recuperato accento e dialetto d’origine (qui la nostra intervista). La sua interpretazione da Actors Studio è il cuore pulsante del film e strappa più di un applauso.
Nel rapporto sempre più stretto che si instaura tra maestro e allieva, tra fratello maggiore e sorella minore, c’è soprattutto l’invito ad assumersi dei rischi, correndo magari all’impazzata in un centro abitato o tagliando il cordolo anche se la curva è pericolosa, perché non ai pavidi ma ai temerari è destinata la vittoria.
Sorretto da una buona sceneggiatura (ispirata alla vita vera del pilota di rally Carlo Capone) scritta a sei mani dal regista Matteo Rovere con Filippo Gravino e Francesca Manieri e che regala diversi momenti divertenti, il film non solo dà lustro a una delle nostre eccellenze, ma la cala nel suo tessuto sanguigno e verace, colorandola con l’inflessione dialettale.
Se a ciò si aggiunge la bellezza delle riprese dal vero (con tanto di auto della produzione iscritta al campionato GT) senza aiuto della computer grafica, resta poco altro da aggiungere a un film genuino e ruspante come un prodotto nostrano DOP, senza additivi digitali. Analogico per gli occhi e il cuore.
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Mi piace: il film è un esempio perfetto di cinema di genere e nello stempo un bel dramma famigliare emozionante, pieno di momenti divertenti. L’incredibile trasformazione da Actor’s Studio di Stefano Accorsi, la bellezza e la grinta dell’esordiente Matilda De Angelis.
Non mi piace: la gara tra le strade di Matera avrebbe dovuto essere più estrema, trattandosi di una gara pericolosa, ma quelle su circuito sono credibili e gli fanno meritare giustamente il titolo di Rush all’italiana.
Consigliato a chi: è in carca di un film che regali emozioni, divertimento e adrenalina.
VOTO: 4/5
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