“Polański, chiacchiere in teatro. Un malizioso gioco a due, in tempo reale, che […] alla lunga provoca diversi sbadigli” (cit.). “La Vénus à la fourrure” è soffocato tra una “mise en abyme” metateatrale e la confessione autobiografica dell’alter-ego del regista e di sua moglie; latita del tanto sbandierato scambio di ruoli (“E il Signore onnipotente lo colpì e lo mise nelle mani di una Donna” è l’unico rapporto di forza inscenato e filmato); mostra un perverso e ossessivo gioco della seduzione come gioco al massacro però dello spettatore, chiamato a essere la vera vittima masochistica della pellicola. “L’autoreferenzialità e la circolarità dei ragionamenti non certo originali o nuovi tirati in ballo dal film finiscono col non coinvolgere del tutto chi guarda e viene utilizzato come una sorta di pedina nel gioco di rimandi”. Peggio: Polański risolve l’argomento sul piano dialogico, mentale e intellettualistico peculiare d’una narrazione tardo-ottocentesca (1870). Non l’aggiorna estendendolo né alla carne né alla carnalità da Velvet Underground, né in chiave ironica (“La dea dell’amore”, “Mighty Aphrodite”, di Woody Allen, 1995), né in chiave drammatica (“Occhi di serpente”, “Snake Eyes”, d’Abel Ferrara, 1993, con la “dea” Madonna). “Questo adattamento ci regala l’arroganza sessuale d’un uomo che sta invecchiando e, francamente, non siamo sicuri che ce ne freghi qualcosa” (cit.).
© RIPRODUZIONE RISERVATAVenere in pelliccia: la recensione di Mauro Lanari
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