Vera vive all’ombra del suo famoso padre. Stanca della sua vita superficiale e delle sue relazioni, finisce alla deriva nell’alta società romana. Un giorno dopo averlo ferito in un incidente stradale in periferia, stringe un’intensa relazione con un bambino di otto anni e suo padre. Ma presto dovrà rendersi conto che anche in questo nuovo mondo è solo uno strumento per gli altri.
Il procedimento stilistico messo in piedi dai registi Tizza Covi e Rainer Frimmel, coppia di cineasti italo-austriaca (lei è di Bolzano), per impaginare la vita di Vera Gemma, figlia del grande Giuliano, in un’auto-fiction “vera come la finzione”, risalta fin da subito per la sua vividezza poetica, meravigliosamente in bilico tra l’immaginario della webserie trash-mistica The Lady di Lory Del Santo e una sua versione alta, ibridata coi codici liquidi del cinema del reale più empatico, vitale e struggente.
L’umanità più sgrarrupata e tenerissima, quella dei pochi splendori e delle tante miserie di chi è vissuto da sempre all’ombra ingombrante del mondo dorato del grande schermo e dello spettacolo, chiamata a farsi largo con passo dolente tra le macerie, oltre ogni imposizione di bellezza, canone e aspirazione forzatamente imposta (a differenza di un suo amico, indifferente all’idea di abitare accanto a dove si forgia materialmente il denaro, la cosiddetta “zecca dello Stato”, lei, Vera, in un momento del film è eccitatissima all’idea).
Da urlo la scena in cui Asia Argento, amica fraterna di Vera e che con lei condivide il destino della “figlia d’arte” per via del padre Dario, la porta al Cimitero Acattolico di Roma (quello vicino Piramide) a visitare la tomba del figlio di Goethe, registrato sulla sua lapide solamente come “il figlio di Goethe”, come se non avesse altra possibilità di essere ricordato al di fuori del padre illustre letterato. Ma tutto ciò che sta intorno a Vera vive e risplende per l’appunto di verità, dall’autista verace ma esistenzialista al fidanzato ottuso, tipico maschio da Uomini e donne di Maria De Filippi che vorrebbe girare con Monica Bellucci (ma sfigurerebbe persino in Alex l’ariete o Troppo belli: ricordando il compianto Maurizio Costanzo), passando per il nuovo amore borgataro al quale la protagonista si affiderà anema e core, rastrellando però soltanto ferite, schiaffi e lividi in virtù del proprio sentimento puro, naïf e incondizionato, assegnato tuttavia, come consuetudine, a caso e senza grandi meriti di chi lo riceve nel legittimarselo sul campo (la parabola designata ricorda molto un mix tra Accattone di Pier Paolo Pasolino e l’immaginario catodico di Buona domenica di Barbara D’Urso).
Il film è girato in pellicola, a riprova di un naturalismo pulsante che investe Vera Gemma anche quando, all’inizio, dichiara che per i suoi genitori ingrassare era anche peggio dell’eroina e che lei, fin da piccola, aveva sempre voluto assomigliare al canone di bellezza delle donne trans, per cui oggi che vi aderisce pienamente si vede bellissima, a dispetto dei terribili commenti carichi di sprezzante insensibilità e cecità morale che le riversano online i suoi immancabili haters. Per non parlare del provino in cui Vera viene, all’inizio – superficialmente e brutalmente snobbata -, per poi essere invece nobilitata solo nel momento in cui ha modo di dire chi era suo padre.
Il ritratto che ne viene fuori – sorprendente, struggente, un po’ come l’altrettanto “fuori norma” Gigi la legge di Alessandro Comodin, anch’esso da qualche parte tra il Kiarostami più strampalato e il Nanni Moretti più lunare – è un self-portrait senza filtri e compromessi: quello di una donna sfiorita per il peso di essere una nepo baby schiacciata dall’icona paterna; una vera e propria forza della natura che, non paga della propria generosità, se ne va ancora in giro passeggiando con l’incedere delle leonessa tribale e della sfinge sinuosa e il capello da cowboy di quell’illustre, benedetto, maledetto papà (ancora) sulla testa ancor prima che nel cuore, e nella testa.
Foto: Wanted Cinema
© RIPRODUZIONE RISERVATA