Vizio di forma: la recensione di Marita Toniolo
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Vizio di forma: la recensione di Marita Toniolo

Vizio di forma: la recensione di Marita Toniolo

Vederlo escluso dalle nomination che pesano agli Oscar (film e regia) poteva aver forse insinuato il dubbio che Paul Thomas Anderson avesse commesso un passo falso, misunderstanding supportato da quelle recensioni Oltreocano che avevano ridimensionato Vizio di forma alla stregua di un divertissement gradevole ma effimero. E, invece, Inherent Vice è l’ennesima riconferma che il regista di The Master è uno dei maestri indiscussi del cinema americano, abilissimo a mescolare spettacolo e sostanza.

Innanzitutto, Anderson rilegge uno dei generi più tradizionalmente a stelle e strisce, il noir di derivazione hard-boiled, sovvertendolo dall’interno con una rotazione psichedelica. Il romanzo di Thomas Pynchon da cui il regista prende il via, non è L.A. Confidential, ma un noir surf, che dietro la patina grottesca, cela una dolente e tristissima riflessione su un Paese alla deriva e con l’American Dream fatto a pezzi dal Vietnam e rifugiatosi a capofitto nei paradisi artificiali delle droghe.

Su questo sfondo opera Larry “Doc” Sportello (Joaquin Phoenix), detective privato dalla chioma perennemente arruffata, basettoni XL, e uno scarso interesse per l’igiene personale, che opera nella californiana Gordita Beach del 1970, ricevendo i suoi clienti in una sorta di studio medico. Appassionato consumatore di erba e altre droghe più o meno leggere, ma attento a non bruciarsi del tutto con l’eroina tanto in voga a quei tempi, Doc riceve la visita della sua ex ragazza, Shasta Fay Hepworth (la bellissima e sensuale Katherine Waterstone), preoccupata che il suo amante Mickey Wolfmann (miliardario costruttore edilizio di cui è davvero innamorata) possa essere rinchiuso in manicomio dalla moglie di lui e dal suo amante. Larry accetta il caso, più che altro per i suoi sentimenti ancora vivi per Shasta, e a breve si imbatte in un altro cliente, una black panther che gli chiede di indagare sulla morte di un suo compagno di cella, membro della Fratellanza ariana, che guarda caso era una delle guardie del corpo di Wolfmann. A chiudere il cerchio, chiede il suo aiuto la moglie del sax tenore di una band, tale Coy Harlingen (Owen Wilson), finito nella rete degli informatori dell’FBI e pertanto costretto a stare lontano dalla sua famiglia. E che scopriremo presto coinvolto in tutti i fatti di cui sopra. Intanto, Mickey e Shasta scompaiono e Doc si trova a che fare con cravatte dipinte con donnine  nude, dentisti evasori e un cartello indo-cinese che monopolizza il traffico di eroina…

Confusi? Trovare il bandolo della matassa non sarà facile per Sportello e neppure per noi, avvinti dal garbuglio di fili narrativi che si intrecciano tra loro, ma incerti fino alla fine nel decifrare un ordito su cui aleggia una fitta nebbia resa ancora più fitta dagli innumerevoli spinelli accesi dall’investigatore nel corso del film, tanto da darci la sensazione di esserceli fumati con lui. E mentre Doc investiga sui fatti e sulle sparizioni improvvise dei personaggi coinvolti nel caso, Anderson svolge la sua personale investigazione, politica e morale sul declino di una nazione.

È dagli esordi che il regista, alla maniera di Altman, ha la passione per gli affreschi corali, dove il pezzo di ciascuno restituisce la visione d’insieme. Quella che ci scorre davanti agli occhi è una galleria di personaggi totalmente fuori di testa, paragonati ai quali Sportello fa la figura del più equilibrato. Dalla sua nuova ragazza, il procuratore Penny (Reese Whiterspoon), al suo avvocato Sauncho Smilax (Benicio Del Toro). Persino la sua “nemesi”, il poliziotto Christian Bjornsen detto Bigfoot (un vero ruolo-chicca di Josh Brolin), che dovrebbe rappresentare l’ordine e la regolarità, è in realtà un nevrotico ossessionato dagli hippie e dall’idea che qualsiasi riunione che ne raggruppi più di due possa trasformarsi in un culto assassino alla Charles Manson. Anche la sua mania persecutoria nei confronti di Doc è spesso ambigua e si concluderà in modo imprevedibile (impagabili i surreali siparietti slapstick tra i due!).

Nessuno si salva in questo caleidoscopio psichedelico di destini intrecciati, che mescola l’Ultima cena a base di pizza, la Fratellanza ariana, un bordello di prostitute lesbiche travestito da centro massaggi e un cartello della droga che serve in realtà ad alimentare un redditizio business ortodontico per “fattoni” a beneficio di un gruppo di dentisti assassini.

È un trip grottesco quello in cui ci trascina Anderson: si ride molto, ma altrettanto spesso si sgranano gli occhi. Così come il voice over narrante dal tono ironico dell’amica di Doc, Sortilège, non riesce ad annullare la pericolosità latente che si percepisce costantemente in questo regno dell’assurdo, in cui una svastica può essere minimizzata e trasformata in un simbolo hindù pacifista. La sensazione più diffusa è quello spaesamento tipico delle black comedy coeniane, dove violenza e assurdità si mescolano, come ne Il grande Lebowski.

Sebbene sia un tuffo nel passato che sguazza nel vintage dell’Età dell’Acquario, “quando la Luna è nella settima casa e Giove si allinea con Marte”, rischiarato dalla luminescenza al neon tipica dell’epoca e da una colonna sonora che cita Neil Young e altri classici, non è un affresco nostalgico, ma triste: per quel che avrebbe potuto essere e invece non è stato, per le speranze di allora disilluse e tradite. Un po’ il requiem della controcultura hippie.

Che cosa è andato storto? Il “vizio di forma” intrinseco alla nazione Anderson lo aveva già mostrato ne Il petroliere, dove mostrava le fondamenta malate di un Paese che successivamente avrebbe cercato nelle sette religiose di The Master una consolazione alle follie della guerra, passando quindi per i lisergici ’70 di Inherent Vice per poi scivolare nelle perverse Boogie Nights degli ’80 e precipitare, infine, nelle nevrosi e nei fallimenti relazionali dei ’90 di Magnolia.

Che cosa ci resta di fronte a questo fallimento “sistemico”? Uno sprazzo di luce. Un eroe solitario, l’ultimo dei romantici, impersonato da quell’animale da palcoscenico che è Joaquin Phoenix, qui in totale stato di grazia. Un cavaliere maleodorante e zozzo con i sandali di gomma, la camicia hawaiana, la canna più pronta della pistola e un taccuino su cui scrive note totalmente inutili ai fini delle indagini, ma che è disposto a immolarsi per senso di lealtà nei confronti di un’amata sfuggente e “fedifraga” – impalpabile come un sogno – e per generosità verso una moglie che vuole riunirsi al marito. Capolavoro.

Leggi la trama e guarda il film

Mi piace: il trip grottesco, ma venato di romanticismo in cui ci trascina Anderson. Phoenix al suo meglio.

Non mi piace: una certa “fumosità” della trama.

Consigliato a chi: adora Anderson dai tempi di Boogie Nights e gli è sempre rimasto fedele, ma anche ai neofiti che vogliono fare la conoscenza di uno dei più grandi registi americani, qui in splendida forma.

VOTO: 5/5

 

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