È buio in sala. Il rumore di una batteria cresce in un accelerato. Segue i tempi di un metronomo interno, sempre più rapido e sempre più frenetico. Poi si fa luce: in profondità di campo, punto luminoso al fondo di un corridoio, un ragazzo si ferma. Aggiusta lo strumento. Continua a suonare.
Se volessimo per una volta chiudere gli occhi al cinema, Whiplash sarebbe il perfetto film acustico, che si segue con le orecchie prima che con lo sguardo, nel suo andirivieni di suoni e di musiche, che ne scandiscono i tempi, la foga, la passione. Whiplash, un nome che, fino a un anno fa, prima della vittoria del film al Sundance Film Festival, prima delle 5 nomination agli Oscar e prima del suo arrivo in Italia (domani nelle sale), aveva un sapore alchemico e un significato quasi sconosciuto, se non a un pubblico di eletti, gli amanti del jazz che ne conoscevano la partitura.
Damien Chazelle, alla seconda prova dietro la macchina da presa, dopo un esperimento dedicato allo stesso genere musicale, porta sul grande schermo, con pochi mezzi e due grandi attori, una rivisitazione della sua esperienza alla Princeton High School Studio Band, raccontandola con i toni audaci di una metafora che ambisce a estendere il suo oggetto, oltre la biografia, alla vita.
Andrew (Miles Teller), batterista 19enne, è determinato a diventare il miglior strumentista jazz del suo tempo. Per perseguire il suo sogno, passaggio necessario è entrare nell’orchestra del feroce Terrence Fletcher (J.K. Simmons quasi senza concorrenti all’Oscar), insegnante spietato senza ragione. Andrew si esercita con accanimento, senza sosta, rinunciando agli affetti, alla famiglia e a qualsiasi svago, e frazionando il suo tempo in quello delle misure musicali velocissime che deve imparare a eseguire, una metrica che scandisce i suoi ritmi interiori alla ricerca dell’eccellenza e della riuscita a ogni costo. In una guerra fatta di sangue, sudore e lacrime contro se stesso e contro il proprio maestro, suo antagonista allo stesso tempo reale e immaginario.
Ancor prima che la distribuzione si mobilitasse per farlo arrivare in sala, Whiplash aveva galvanizzato i più giovani. Un successo sotterraneo, passato di bocca in bocca poco prima delle nomination, quando negli Stati Uniti i critici lo indicavano tre le pellicole più belle del 2014. Un segnale interessante che molto racconta della necessità, oggi, di un cinema che sappia affrontare, nell’essenzialità della sua narrazione, un messaggio dalla portata universale e antropologica. In un momento storico che, a più riprese, ha descritto la crisi economica, specie per le nuove generazioni, come una sconfitta di ordine apocalittico che consegnava la possibilità di rinascita soltanto al più furbo, Whiplash al contrario, fa intravedere che un’ambizione può avere buon esito.
Contrariamente alle rivoluzioni del passato, che raccontavano di un potere collettivo dell’immaginazione, e contrariamente anche a quei teen movie che inneggiano sottotraccia all’America come terra dell’abbondanza e della possibilità per tutti, il film di Chazelle (nato nel 1985 e quindi anagraficamente vicino alla generazione della crisi) consegna allo spettatore un messaggio nuovo, nè politico, nè ideologico. Quanto siamo disposti a batterci, come Andrew, per il nostro sogno? Siamo in grado, metaforicamente, di consumarci le mani fino a sanguinare?
Senza empatizzare con gli eccessi cui giunge il suo protagonista, che a un pubblico più adulto forse non saranno del tutto comprensibili, Chazelle trascende la condizione interiore della sua generazione: Whiplash in questo senso è una scossa elettrica che insegna, con un’idealismo disarmante, a giocare con la vita. Là dove molti hanno visto nell’orchestra e nella didattica di Fletcher gli echi della scuola militare di Full Metal Jacket, piena di retorica, di sollecitazioni belliche e di umiliazioni, Whiplash ne è la versione moderna, quella che, in un rovesciamento di contesto, porta la guerra dentro il suo protagonista e dentro lo spettatore, invitando a dotarsi di un’armatura contro cui affrontare gli ostacoli della sopravvivenza nella civiltà moderna. Quella che troppo spesso relega ai margini quanti vogliono riuscire (soprattutto) nelle professioni artistiche e creative. Quella governata da una supremazia (gerontocratica) dei padri. Se il ’68 aveva portato i giovani a sognare insieme e se gli anni ’80, al contrario, avevano visto nell’individualismo a scapito degli altri il compimento di un sogno di benessere e successo, oggi Whiplash parla ancora della solitudine del sogno personale, ma in termini contemporanei: una battaglia dove le possibilità dipendono esclusivamente dalla propria determinazione.
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Mi piace: le musiche ipnotiche, che coinvolgono anche un ascoltatore non esperto di jazz . L’interpretazione magistrale dei suoi protagonisti. Il ritmo teso e ferreo, che non ammette respiri, facendo arrivare d’un fiato al finale
Non mi piace: l’accento a tratti eccessivamente iperbolico, che fa perdere in qualche punto credibilità alla storia
Consigliato a chi: ama il cinema indipendente e a chi vuole vedere un film candidato agli Oscar dalla veste inedita
Voto: 4/5
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