Whiplash: la recensione di Mauro Lanari
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Whiplash: la recensione di Mauro Lanari

Whiplash: la recensione di Mauro Lanari

Userò degl’eufemismi. Fosse durato 30 secondi, sarebbe stato intercambiabile con lo spot della Duracell in cui vince il pupazzetto che riesce a suonare più a lungo il rullante. Fosse stato diretto da un regista di minor spessore, a es. il Kubrick di FMJ, sarebbe stato un atto di veemente protesta contro il sadomasochismo e “Palla di Lardo” avrebbe prima ucciso il suo istruttore sparandogli al cuore e poi si sarebbe suicidato. Ma FMJ ha ottenuto dall’Academy appena una risicata nomination per la miglior sceneggiatura non originale, e d’altro canto il rapporto fra Stanley e gl’Oscar non è stato mai brillante. Forse poiché egli, d’antimilitarista, rifiutava l’equivalenza fr’arte e arti marziali e, d’artista, conosceva i deleteri effetti dell’eccesso d’accademismo sulle proprie sperimentazioni estetiche. “A quattro anni dipingevo come Raffaello, poi ho impiegato una vita per imparare a dipingere come un bambino”: Picasso, un ulteriore esempio di second’ordine nella storia del ‘900. Invece il genio di Chazelle ha già scoperto com’arruffianarsi la giuria sia dell’indie Sundance che delle statuette per le major, il pubblico sia dei festival d’oltreoceano che della Quinzaine di Cannes. Vomita il suo farneticante concetto di musicista: essere un esecutore perfetto al servizio di qualunque compositore, distruggere il valore delle qualità creative ed esaltare il talento virtuosistico (forse mi son perso la scena in cui il protagonista si e ci dimostra capace di suonare le quartine su due grancasse in simultanea), presentare l’assolo quale vertice emotivo anziché come la sua antitesi, un tappabuchi per supplire l’ispirazione, ridurre la complessità dei parametri sonori a tempo, velocità e resistenza. In “Whiplash” “non c’è niente di credibile. Il modo in cui gli studenti interagiscono tra loro, la musica che fanno, la musica che suona il docente severissimo quando lo si vede al piano in un bar, le modalità didattiche, la reazione degl’allievi, i modelli musicali che non vanno oltre gl’anni cinquanta, le torture fisiche e psicologiche, il sangue, il dolore, gl’insulti: tutto quello che nel film ha a che fare con la musica non ha niente a che vedere con la musica.” Sarà occasionalmente vero che nei conservatori l’impostazione di base sia questa, l’afferma lo stesso Chazelle per l’esperienza da lui vissuta, ma c’è un motivo se si chiamano “conservatori” e non “innovatori” (esistono anche questi, però vanno cercati altrove). Rieccoci dunque col solito film osannato per il virtuosismo fine a sé o addirittura funzionale a un’ideologia da “Rambo”: ormai il marketing osa scommettere solo su cloni ed epigoni d’antichi fasti e vetusti modelli gloriosi, i “talent show” bocciano la minima parvenza d’originale personalità e si sono adeguati anche audience e giurie cinematografiche. Se poi Charlie Parker è diventato “Bird” nel modo che il film insiste a ricordare una mezza dozzina di volte, problemi suoi.

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