White God, dell’ungherese Kornél Mundruczó, ha una veste indecidibile e indecisa, sdoppiato, triplicato e addirittura quadruplicato nei generi che abbraccia per farsi film di denuncia, di azione, di vendetta, di ribellione e pure di eroismo. Un registro allegorico prima che letterale, un morality play prima che un racconto realistico. Se, nelle intenzioni, le ragioni narrative sono corpose, stratificate e dettate dalla necessità (chiara al regista) di riflettere e portare lo spettatore a interrogarsi sul ruolo sociale e fenotipico dell’uomo bianco (e quindi di figura che si crede divina, da cui il titolo) nei confronti dell’altro da sè, il risultato non è encomiabile e stupisce il riconoscimento a Cannes, dove era stato presentato nella sezione Un Certain Regard l’anno scorso, come miglior film nella categoria.
In una Budapest deserta, che fa pensare alle città fantasma attraversate dall’invasione dei morti viventi o agli scenari urbani vessati dai postumi di un cataclisma, una ragazzina si aggira su una bicicletta, accompagnata da una tromba, che fa risuonare attraverso il paesaggio vuoto intonando le note della celebre (e abusata fino al didascalismo, Tom & Jerry compresi) Rapsodia Ungherese n.2 di Franz Liszt. Improvvisamente si imbatte in una schiera di cani che, alla rincorsa, le stanno alle calcagna, come richiamati all’appello da quello strumento. Non si saprà, per i 100 minuti successivi, se la ragazzina è inseguita dal gruppo o se ne è la guida, ma questo basta a gettare lo spettatore in un clima di sollecitazione frustrata, in cui si interroga su ciò che gli viene mostrato senza saperlo collocare in un perimetro o in un genere.
E di generi, infatti, White God ne lambisce tanti, senza permearli a pieno: la favola nera dell’inizio, in cui Lili, la ragazzina protagonista, è costretta dal padre e da una legge che esige la registrazione dei cani meticci e il versamento di una tassa esosa, ad abbandonare il suo Hagen (attore canino – bisogna riconoscerlo – notevole a fronte delle controparti umane); il film drammatico, che segna il distacco disperato e la solitudine esistenziale ed emotiva che colpisce tanto Lili quanto Hagen, costretto a subire la cattiveria degli uomini; il film di denuncia, che non risparmia notazioni macabre, nel momento in cui, specularmente, Lili cerca di svagarsi con i suoi coetanei tra droga e discoteche e Hagen viene venduto per essere addestrato, tra soprusi e violenze, come cane da combattimento; e infine l’horror metafisico, con più di una nota splatter in cui i cani, in fuga da un sovrappopolato canile, si ribellano al genere umano e cercano di vendetta.
Se le motivazioni di partenza sono quelle di trascendere un discorso di denuncia tout court, concedendosi alcune sperimentazioni, nel film di Mundruczó il risultato non è all’altezza. In White God non è tanto difficile immaginare, all’interno di una cornice che man mano sfuma dal racconto ammonitorio a quello surreale della favola macabra, la ribellione del genere canino all’uomo, privato del suo epiteto di migliore amico, quanto accettare la grossolana mancanza di una misura, che nella sceneggiatura si risolve nella rappresentazione di un’umanità integralmente corrotta e in cui nessuno si salva e nell’elaborazione di grandi sistemi concettuali osservati da un punto di vista che non riesce a essere nemmeno dicotomico, ma esclusivamente dominato dal male. Assommando e riversando sul cane, simbolo universale di sofferenza e di emarginazione, nonché capro espiatorio, tutte le colpe della civiltà, il film di Mundruczó finisce per essere apprezzabile e leggibile in modo tutto sommato positivo solo nel progetto di fondo, non nei risultati pratici.
Leggi la trama e guarda il trailer
Mi piace: lo sforzo di sperimentare più generi all’interno della stessa storia
Non mi piace: l’eccesso di stratificazioni non viene supportato da una sceneggiatura solida, ma semplicistica e grossolana
Consigliato a chi: cerca un film forte, che a tratti porta a distogliere lo sguardo.
Voto: 2/5
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