Veronica Rawlins (Viola Davis) è rimasta vedova da poco. La contatta Jamal Manning (Brian Tyree Henry), al vertice di un’organizzazione criminale che intende fare il grande passo e avvicinarsi alla politica dalla porta principale. L’uomo, che ha subito un torto dal marito di Veronica e dal quale è stato derubato prima di morire negli sviluppi di un colpo, chiede alla donna un risarcimento non da poco, fuori dalla sua portata. Non le resta che mettere in piedi una rapina insieme a un manipolo di altre vedove, ultimo veicolo possibile di riscatto.
Steve McQueen, cineasta britannico che aveva stupito tutti con i magnifici e radicali Hunger e Shame per poi approdare agli Oscar e trionfarvi con 12 anni schiavo, si cimenta con un’opera quarta apparentemente lontana dalle sue corde: Widows – Eredità criminale è infatti una costruzione puramente di genere, concitata e dalla vocazione spettacolare non indifferente. In apparenza, e una prima lettura, una virata considerevole se confrontata ai precedenti lavori del regista. Tutti ossessionati, in un modo o nell’altro, dal tema del corpo, esplorato con la sensibilità di un videoartista dal tocco astratto, gelido, radicale.
Rispetto al dittico che gli ha dato grande fama e notevole successo critico, 12 anni schiavo era tuttavia un’apertura già evidente (e più scivolosa) al racconto mainstream, all’universalismo di un messaggio e di una visione. Dopo aver esplorato la prigionia, la sesso-dipendenza e la schiavitù del corpo nero in disarmo, McQueen confeziona col suo nuovo film, adattamento di una serie televisiva britannica degli anni Ottanta, un thriller dalla visione politica nitida e impegnata, che si confronta da vicino con la presa di potere e di coscienza di un femminismo di stringente attualità.
Siamo al cospetto di un’operazione che agita tale aspetto, l’elemento culturale di sicuro più incandescente e urgente della contemporaneità, con la consapevolezza e il senso di ineluttabilità, cruciale e irreversibile, che da sempre animano alle fondamenta il cinema del regista. Qualcosa di eccitante ma anche di rischioso, che poteva sbandare pericolosamente dalle parti del politicamente corretto, e che invece riesce a integrare splendidamente le proprie prerogative militanti. Facendole scomparire, si fa per dire (perché in filigrana sono evidentissime), nell’impianto del film di rapina classico, il cosiddetto heist movie, e nella messa a punto della tensione.
I due aspetti, il piano formale e quello tematico, la chiave di lettura sociale e il dinamismo dell’azione, vengono coniugati senza che nessuno dei due rappresenti per l’altro una zavorra o uno specchietto per le allodole. Quello di McQueen, a conti fatti, è un mimetismo sia estetico che narrativo dal timbro molto forte e dagli echi altrettanto imponenti. E un peso notevole, a livello di scrittura, l’ha avuto senz’altro avuto il contributo alla sceneggiatura di Gillian Flynn, l’autrice de L’amore bugiardo, romanzo dal quale David Fincher ha tratto il suo meraviglioso Gone Girl.
Oltre al femminismo, naturalmente, emergono anche la componente razziale dell’America e il suo machismo fallico e predatorio, eredità storica e culturale da ridimensionare e rinegoziare, per minare alle fondamenta le certezze di un patriarcato da troppo tempo granitiche. Lo stesso sembra fare Steve McQueen col suo stile, agile, pulsante, in continua e fluida evoluzione. La sensazione finale è quella di un film limpido e stratificato, sotto la cui superficie prestante ed elegante vive e respira una profondità sempre sul punto di esplodere. Nella forma e nella sostanza.
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