Hugh Jackman è un supereroe senior. Ha 3 anni meno di Robert Downey Jr., 45 contro 48, ma ha interpretato Wolverine addirittura 6 volte – da X-Men (2000), a questo Wolverine: l’immortale –, due più del collega nei panni di Iron Man. Più del numero dei film, però, impressiona l’arco temporale, addirittura 14 anni legato al personaggio: Connery, per dire, è stato Bond per dieci anni. Jackman è un grande attore. Completo (le sue parentesi teatrali sono leggendarie), autoironico, molto virile e con un fisico impressionante, che cresce senza gonfiarsi quando la muscolatura viene portata al limite. Il suo Wolverine è l’eroe-macho per eccellenza, fumantino, burbero, sempre in canottiera, incantato – quasi in balia – delle donne. C’è, nel personaggio, e più del solito in quest’ultimo film, una tempra romantica un po’ buffa, da vecchio 007.
Ed è qui il paradosso: pur riportando Wolverine al Giappone e alle sue origini – le vicende orientali riprese dagli sceneggiatori risalgono ad albi del 1982, che sono considerati decisivi nella genesi del personaggio – la natura della storia, così come l’aspetto di Logan, ha una concretezza granitica un po’ vintage, il peso di tanti anni di cinema e di vita. Non c’è, si direbbe, progetto, che non sia quello di infilare il mutante in una tradizionale struttura in tre atti. Struttura contaminata dal meccanismo videoludico dei boss di forza sempre maggiore da affrontare, e dalla convocazione in scena di icone care ai fumettofili (Viper, Silver Samurai). Manca un disegno, un pensiero a lungo raggio. Disney e Marvel hanno trovato in Jon Favreau e Joss Whedon i profeti della nuova superhero-comedy (le scelte fatte per il Mandarino in Iron Man 3 sono quasi il punto alla fine di un manifesto di intenti). Warner insiste sulla verosimiglianza dell’inverosimile, sugli eroi crucciati sdoganati da Nolan. Fox non sceglie. È una specie di ultimo retaggio dello Studio System in pieno Brand System, un modo molto tradizionale, onesto, perfino corroborante di fare cinema. C’è una storia, un luogo esotico che ne determina il carattere e i nemici (la yakuza, i ninja), un interesse romantico che ne sostiene i motivi, che dà benzina al percorso dell’eroe. C’è abbondanza d’azione, ma tutta leggibile, e mai sperimentale (fatta forse eccezione per la bella sequenza sopra il treno in corsa).
Siamo insomma lontani da qualsiasi frontiera, ben dentro il cinema. Wolverine: l’immortale è tutto in questa medietà: è costato tanto, ma comunque la metà di Pacific Rim; è dinamico, ma non frenetico; è ben recitato, ma non c’è virtuosismo, pretesa di intensità teatrale. È un cinecomic, ma circoscritto, fuori dai meccanismi che muovono le altre major. È nuovo, ma in un certo senso già vecchio. Giusto, ma in un modo che rischia di interessare a pochi: perché mantiene quel che promette, ma promette troppo poco, è poco più di un automatismo produttivo. Per i tempo che corrono potrebbe non bastare.
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Mi piace
Un superhero movie classico e non troppo fracassone: una rarità
Non mi piace
Nessuna ambizione che non sia quella di costruire una storia: in un’epoca di film-evento come questa potrebbe non bastare.
Consigliato a chi
Ama il personaggio, e soprattutto è stufo di Destruction Porn
Voto: 3/5
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