Youth - La giovinezza: la recensione di Giampaolo Gombi
telegram

Youth – La giovinezza: la recensione di Giampaolo Gombi

Youth – La giovinezza: la recensione di Giampaolo Gombi

Si può definire la luce parlando dell’oscurità, l’amore dissertando dell’odio, la giovinezza riflettendo sulla vecchiaia. Cosa, quest’ultima, perlopiù prerogativa dei vecchi, poiché i giovani sul proprio stato generalmente non si soffermano, essendo per loro naturale e unico.
Il film “Youth” di Paolo Sorrentino è una riflessione sull’ultima età dell’uomo che, in negativo, arriva a parlare della giovinezza.
I due anziani protagonisti (interpretati da Michael Caine e Harvey Keitel) rispettivamente ex musicista di fama e regista si trovano in un elegante albergo di montagna (pare a Davos, in Svizzera: Mann incombe…), di cui godono i generosi e raffinati servizi. Trascorrono le loro giornate tra passeggiate negli alpeggi, amabili conversari davanti a tazze di tè, abluzioni nelle piscine, lunghe sedute di massaggi. I massaggi, autentica ossessione del musicista, che vi si sottopone stoicamente, quasi nel tentativo estremo di uscirne rimodellato. Pur non esplicitamente confessato, lo sguardo sul corpo, il disgusto per il declino fisico (e quindi, all’opposto, l’ammirazione per la bellezza) attraversa e grava su tutto il racconto.
Ma al di là di questa (in parte ovvia) ed altre poche intuizioni narrative, il film non aggiunge interrogativi, non innesca riflessioni sul motivo di base. Assistiamo a situazioni scontate, dove si parla (in maniera poco veridica) di problemi legati alla salute, di ricordi sbiaditi di antichi amori, di prese di posizione riguardo la sessualità dei figli, e altro ancora.
Certo, restiamo colpiti dalla bellezza statuaria (divina) di Miss Universo, ma la breve scena, al di là di un nesso forse involontario con l’episodio biblico di Susanna e i vecchioni, non ci sorprende, come pure non ci sorprende la visione dell’ex calciatore (chiaro riferimento a un grande campione decaduto) che sa ancora palleggiare in maniera inimitabile nonostante il fisico distrutto.
Il finale ha un’impennata. Dopo una visita alla tomba di Igor Stravinskij (suo nume tutelare) nel cimitero di San Michele e alla moglie, ridotta in stato vegetativo in un cronicario di Venezia, il musicista riannoda i legami col proprio passato e trova la forza per dirigere quel concerto davanti alla regina per il quale era stato quasi supplicato. Qui la narrazione si snoda coi ritmi giusti, è commossa, come sospesa e il regista ritrova la sua ispirazione migliore.
Il film nella sua totalità può condurre a giudizi opposti. Lo si intuisce ambizioso, intenzionato ad attestarsi ad un livello alto, e, trovando che non vi riesca, esserne delusi. Si possono considerare intollerabili i simbolismi, indecifrabili e gratuite molte delle sue invenzioni.
C’è invece chi ama Sorrentino “a prescindere”, con atteggiamento da fan, e resta naturalmente soggiogato dalla sua maniera, dal suo linguaggio frammentato e immaginifico, visionario, sospeso a volte tra realtà e sogno.
Considerazione finale: Sorrentino farebbe bene, a meno di non avere qualche idea strepitosa per le mani (come è stato nei suoi film precedenti), a guardarsi dalla maniera di Paolo Sorrentino.

© RIPRODUZIONE RISERVATA