“Youth – La giovinezza” (Youth, 2015) è il settimo lungometraggio del regista napoletano Paolo Sorrentino.
Essere per raccontarsi, vivere per vedere solo il bello, incontrarsi per legarsi, tenersi per non ricordare. E’ la chiosa di un posto restio all’uomo e all’ultimo atto di una vita. E’ l’ultimo giorno della vita un film da realizzare che nessuno alla fine riesce a fare. Il regista prova, riprova ma oramai la diva di ieri ha detto no e gli attori (di oggi) che provano non sanno che battute dire. E’ il mestiere della vita che riesce a essere difficile sempre.
Paolo Sorrentino racconta il desiderio dell’oggi facendo incontrare i suoi personaggi in un ‘afflato’ miscuglio tra i paesaggi (incantevoli) di una Svizzara disadorna di pesantezza e ricolma della leggerezza del pensiero di tutti. Mai sopra le righe. Tutto in un disincanto oniricamente leggiadro e in un visualizzante panorama dimesso e distante. ‘Maestro perché in Svizzera?”. In fondo tra Londra e Venezia il campo è vicino per riposare e non fare più nulla neanche le ‘sons’ di qualità minima. Il film snoda sipari e siparietti, prati e ricordi, suggestioni e fantasmi, forme e allusioni, discorsi ad aspri silenzi di contemplazione. Un film complesso e largamente variopinto nei temi, nelle inquadrature e nelle strutture interiori di una piuma che vorrebbe innalzarsi da sola (senza le arie vereconde di un mattino sospeso).
Fred e Mick due vecchi amici si ritrovano in un luogo isolato in quel di Davos (Hotel Schatzalp che è stato nominato da un certo Thomas Mann) per confrontare la loro vita e pensare (minimamente) al loro (breve) futuro. Fred è un ex direttore d’orchestra mentre Mick è un regista oramai in discesa che cerca di portare a termine un suo ultimo film (‘l’ultimo giorno della vita’). Tutto in un declino con argomentazioni di basso tono con qualche escandescenza verso una figlia in crisi d’amore o verso attori che non sanno la battuta giusta. Il giusto riposo riposo diventa giusto silenzio umano e osservazione di una giovinezza svanita e lievitata da tutti i corpi in estasi dal tutto. Il lavoro è fuori per Fred, il lavoro è vita per Mick. Vuole riprovarci ancora (una volta).
“La vita va avanti, Mick, no questa stronzata di cinema” dice Fred al suo amico cercando di togliergli i sogno di un’emozione lontana e tenendolo con i piedi per terra (e sognando il domani dell’oggi quotidiano’). Anche perché amaramente alla fine si dirà che in fondo nella vita ‘siamo comparse’. Ecco appunto le comparse di un cinema futile e per nulla importante. Anzi. Mentre Fred è lontano dalle scene da moltissimo eppure la regina Elisabetta vorrebbe la sua direzione per un concerto per il compleanno del duca di Edimburgo. Le resistenze sono fortissime mentre gli attori dall’altra parte sembrano pronti. Ecco i rovesci di chi non vuole e di chi vorrebbe. La vita lievita i ricordi (oramai talmente lontani che sembrano totalmente svaniti) e ne allarga l’emisfero a un ultimo incontro con Igor’ Fëdorovič Stravinskij (sulla sua tomba nel cimitero di San Michele a Venezia) e le forme fisiche intristite della cara moglie.
Ecco cadente e disunito, aggrumato e didascalico, colorato e dismesso, diuretico e imbiancato, il film appare in estasi piatta e in precipizio spento: linearmente e fintamente posticcio. Tutto in una vacanza lontano da odori superflui, smog lavorativi e ciondoli d’illusioni. Anche perché arrivano quelli che non aspetti; un ‘pibe de oro’ in grasso che non c(a)ola, una Miss Universo che (s)forma il corpo per piacer(c)si, un uomo(attore) travestito in ‘fuhrer’, coppie che mangia senza parlarsi, un silenzio da phon(austero) e una bambina che impreziosisce Jimmy Tree. Tutto accade dentro le mura di Davos in uno schianto di voci disperse dalla vita sul ‘viale del tramonto’. E in fondo meglio dirsi le cose più belle del resto (e altro) a chi può importare (meglio non importunare il ricordo). Ogni scommessa è buona tra i due amici per distrarre il tempo: ogni occasione è buona (‘se parlano’, ‘se fanno sesso’ , ‘se il film si farà’, ‘se le memorie si scriveranno’ e ‘se il concerto a Londra…’). E se Brenda Morel (l’ultima diva) accetterà il film del suo Mick Boyle per ricordargli che i suoi ultimi erano delle schifezze.
“Ma tu con Brenda…”, “ E tu con Brenda…”… ma se è stato sessantenni fa neanche me lo ricordo. Siamo troppo vecchi per ricordarci tutto (e forse dire qualche bugia). Ecco Fred e Mick che si sorvegliano nella vicina distanza. Ma la morte incombe e forse il destino su di essa. E il film non si farà (forse) mentre la diva (sguaiatamente) non trattiene più il ricordo in un pianto disperato per poter ritornare vicino al suo amico di tanti film.
E nel finale ammirevole-mente inerme sulla musica del maestro (a quasi collegare con la ‘Prova d’orchestra’ -1979- del riminese) ecco che si dispera ogni voce interiore di un’emozione (unica) per la sua adorata moglie. Un applauso, gli occhi arrossati e una foto immagine di Mick allungano il biancore di un’età oramai finita. La morte del cinema dentro le note di un’orchestra che accompagna il canto. E Paloma Faith fa quello che sa fare (e bene). Si deve dire che la coppia Michael Caine (Fred) e Harvey Keitel (Mick) ha uno sguardo sui personaggi molto libero e li rende divertenti nella loro recitazione fatta di piccoli gesti, temi sottrattivi e palpebre leggermente mosse. Qualche caduta c’è (nel linguaggio, in alcune frasi di troppo e l’uso dei corpi con compiacenze) ma loro sanno fare il massimo con il minimo di una scrittura. Figurarsi. Sono in parte (e benissimo) il bravo Paul Dano (Jimmy Tree) una scoperta in un ruolo che fa crescere da solo in tuttom il film e la Rachel Weiz (Leda) che riesce a ritagliarsi il giusto spazio di fronte ai ‘cosiddetti’ mostri sacri. L’entrata in scena di Jane Fonda (Brenda Morel) soverchia la recitazione e ci mette di fronte al mondo compassato e orgoglioso di che cosa significa apparire e sollecitare la finzione cinematografica.
Da ricordare la ‘accattivante’ e ‘suadente’ fotografia di Luca Bigazzi. La regia di Paolo Sorrentino trova dei buoni momenti e delle ottime trovate (la Venezia sommersa, il passeggio dei due amici, il treno in stazione, la sala degli ospiti e le distanze su alcuni giochi) ma riesce a liberare l’ovvietà, in battute doppie, inquadrature similari, particolari inutili e aggiunte di corpi, che attutisce il simbolismo di fondo. L’ultima parte per chi scrive è la migliore. E la commozione appassita e sincera rende la pellicola come il lievito del pane.
La dedica finale ‘A Francesco Rosi’ alimenta il vero ricordo di un grande cineasta scomparso recentemente.
Voto: 7-.