Lost: perché NON è un capolavoro - La teoria spirituale
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Lost: perché NON è un capolavoro – La teoria spirituale

Dopo aver letto lo speciale del regista Fabio Guaglione, un nostro lettore risponde punto per punto con interessanti argomentazioni, infiammando il dibattito sulla serie di J.J. Abrams

Lost: perché NON è un capolavoro – La teoria spirituale

Dopo aver letto lo speciale del regista Fabio Guaglione, un nostro lettore risponde punto per punto con interessanti argomentazioni, infiammando il dibattito sulla serie di J.J. Abrams

In risposta all’articolo (eccessivamente) entusiasta di Fabio Guaglione (che consiglio caldamente di leggere in generale, ma che è assolutamente necessario leggere per comprendere i punti salienti delle obbiezioni che propongo).

Leggi La teoria spirituale di Guaglione.

La teoria spirituale

(segue da) Fabio Guaglione non è affatto stupito, dopo la quinta stagione, dopo aver incontrato un personaggio come Daniel Faraday, dopo l’esplosione di una bomba nucleare che i nostri eroi fanno esplodere negli anni Settanta, essendo tornati indietro nel tempo, all’interno di una straordinaria sacca di energia dell’isola, che avrebbe dovuto avere (scientificamente) effetti sul futuro/presente (reale) dei Losties, che la sesta stagione proponga invece una realtà alternativa che alla fine dimostra di non avere nulla a che vedere con tutte queste premesse pseudo-scientifiche o se vogliamo almeno chiaramente sci-fi. Non si stupisce che alla fine ci troviamo di fronte a una sorta di purgatorio (ipotesi che, seppure in modi diversi, era stata paventata dai fan in centinaia di occasioni durante il persorso di Lost e sempre smentita (ma i Darlton smentivano categoricamente per tenere alta la suspance o perché non avevano la più pallida idea di dove stavano andando a parare? Non lo sapremo mai!). Questo mondo (reale anch’esso in un certo senso, e a qualcuno piacerebbe provare a capire in che senso sarebbe reale, visto che si tratta di una realtà immaginata dai Losties e dopo la morte per di più, ma vabbè!) è una realtà senza tempo: non esiste un adesso qui, dice Christian a suo figlio Jack, quando finalmente questi prende coscienza di essere «morto» (sulla falsariga del Sesto senso o di The Others, giusto per sottolinearne l’originalità). Eppure si tratta di un mondo reale. Così reale che il reale figlio di Jack, cresciuto fino a un’ipotetica età di, a occhio, almeno 14 anni, viene dimenticato in un batter d’occhio da padre e madre (particolarmente snaturata quest’ultima, dato che gli basta uno sguardo agli occhi del bel – bello e bravissimo Josh Holloway, bisogna dirlo – tenebroso James Ford alias Sawyer. Si tratterebbe di un mondo plasmato sui loro desideri (di tutti loro?). Ma se Juliet ha amato Sawyer perché desidera vedersi sposata (divorziata) con Jack? E Libby desiderava rinchiudersi in un ospedale psichiatrico? E Desmond anziché vivere la sua grande storia d’amore con Penelope, rinunciarci per avere in cambio la stima di Charles Widmore? E Charlie desiderava tornare ad essere un tossico senza speranza? E Kate di aver nuovamente ucciso suo padre per continuare a essere una fuggitiva? E Anthony Cooper (padre di Locke) desiderava essere ridotto a un vegetale dall’imperizia aerea di suo figlio John? E Sayid Jarrah desiderava davvero che l’amore della sua vita, Nadia, fosse sposata con suo fratello, anziché con lui? Ah ma no, un momento, l’amore di Sayid non è affatto Nadia, nossignore è Shannon, così almeno ci si poteva giocare il ritorno a sorpresa della bell’attrice Maggie Grace. Certo, qualcuno dirà che Sayid e soprattutto il perfido Anthony Cooper dovevano espiare le proprie colpe e ancora una volta bla bla bla! La verità è che i desideri di alcuni si scontrano inevitabilmente con quelli di altri e quindi il «gioco» era un vicolo cieco in partenza, minato nelle sue stesse premesse. Però a noi dopotutto interessano solo i desideri di alcuni. Quindi se non quadra chi se ne importa? Sento dire a tutti gli entusiasti del finale. Quel mondo è immaginato solo da pochi, e di tutti gli altri chi se ne frega, fanno semplicemente da contorno. Di nuovo, il famigerato chi se ne frega! Insomma, per accettare Lost, dobbiamo fregarcene. Ad ogni modo strani desideri, che a volerli analizzare attentamente, rischierebbero di gettare una luce narrativamente funesta anche sull’arco di trasformazione dei personaggi principali. Dato che poi questa dei personaggi è la carta vincente che si giocano tutti gli entusiasti, ed è anche il cavallo di battaglia dei Darlton. Qualche giorno prima della messa in onda dell’episodio finale l’avevano detto, mettendo le mani avanti, come si suol dire. «A noi interessano i personaggi», tutto il resto era in effetti, a pensarci bene, solo accessorio! Ma anche sulla coerenza dei personaggi ce ne sarebbero di cose da dire. Ricordo a Fabio che un conto è la doverosa tridimensionalità del personaggio, un conto accettare la sua incoerenza. Si dice che le persone siano incoerenti. Appunto, le persone non sono personaggi e viceversa. Il personaggio deve avere una direzione e agire rispettando le proprie premesse, i propri desideri. L’autore seleziona i suoi pensieri e delle azioni che compie, ci mostra solo quelle funzionali a portare avanti la storia e quelle in un certo senso esemplari. Che un personaggio si comporti troppo come una persona, incoerente, che pensa una cosa e ne fa un’altra, senza direzione, senza un compito ben definito, senza un desire, non è un valore narrativo. Al contrario. (continua)

Gli altri “capitoli” di Lost: perché NON è un capolavoro

Le lacrime

Gli ultimi minuti

Un messaggio semplice

La teoria spirituale

La teoria scientifica

I punti forti

Il linguaggio

I personaggi

Il binomio fede e scienza

I misteri

Una mania collettiva

L’utilizzo dei media

Let it Go

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Alfonso Papa ha frequentato il master biennale in Tecniche della narrazione presso la scuola Holden di Torino. Tra le altre cose ha collaborato con la casa editrice Einaudi in qualità di lettore e ha lavorato su alcuni set cinematografici, tra cui Radiofreccia di Luciano Ligabue e Un amore di Gianluca Tavarelli. Dal 1999 al 2007, prima per l’Associazione Cinema Giovani e poi per il Museo Nazionale del Cinema, si è occupato dell’organizzazione del Torino Film Festival. Attualmente lavora in qualità di production manager per la Film Commission Torino Piemonte. Lo scorso marzo era tra i giurati della manifestazione cinematografica Piemonte Movie 2010.

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