L’abbiamo appena visto nei panni del maggiordomo Alfred, ma per uno che si è fatto conoscere con film come La donna del tenente francese, Mission e soprattutto Inseparabili, il cinecomic di Znyder sembra più l’eccezione che la regola di una carriera. E tuttavia Jeremy Irons sarà presto protagonista di un altro film ispirato a un immaginario geek come Assassin’s Creed, dimostrando di essere sempre più a suo agio con il mainstream in questo momento della sua carriera. Tuttavia, quando lo incontriamo al Toronto Film Festival, è per parlare di un progetto molto diverso da questi ultimi, ovvero L’uomo che vide l’infinito di Matt Brown. Qui Irons interpreta il professore inglese G.H. Hardy, colui che a inizio ’900 fece da mentore e supporto al genio di Srinivasa Ramanujan (Dev Patel), uno dei grandi innovatori della matematica contemporanea. Un ragazzo indiano che nel suo paese, senza un’istruzione scientifica degna di questo nome e partendo unicamente da un libro di algebra reperito per caso, era riuscito a fare delle scoperte che avrebbero rivoluzionato la materia. E il mondo.
Come è arrivato al personaggio?
«Mi ha coinvolto nel progetto il produttore Edward Pressman, un uomo di cui mi fido avendo lavorato con lui ne Il mistero Von Bulow, che mi regalò un Oscar. Dal momento che non credo ne vincerò altri, qualcosa a Edward sento di dovere…».
Si è trovato a suo agio nel vestire i panni uno studioso d’altri tempi?
«Senz’altro, l’ho fatto molto spesso in carriera perché non mi considero troppo un uomo contemporaneo, il mondo in cui viviamo oggi non mi mette a mio agio. E poi Hardy rappresentava una sfida sotto molti punti di vista, prima di tutto quello emotivo. C’è una scena in cui deve sostenere la candidatura del suo discepolo Ramanujan affinché diventi un membro della società accademica. Ho cercato di interpretarla come se fosse quello il momento in cui l’uomo capisce veramente l’importanza non solo scientifica di Ramanujan, ma soprattutto il suo valore come amico. In generale mi sono piaciute molto le scene di dialogo con Dev Patel, probabilmente perché essendo così lunghe mi permettevano di adoperare al meglio la mia formazione teatrale».
Sembra essere soddisfatto della sua performance.
«Molto e, mi creda, non mi capita spesso. Quando leggi una buona sceneggiatura capisci il valore di un personaggio, ma interpretarlo è tutt’altra questione: devi scomporlo scena per scena, e ognuna di esse rappresenta un microcosmo differente. Ogni giorno di lavoro in realtà è un’incognita, ci sono così tante variabili che possono definirne il valore. Penso inoltre si sottovaluti costantemente l’importanza del montaggio quando si guarda un film».
In che senso?
«Nel caso di L’uomo che vide l’infinito, ad esempio, sottolinea elegantemente il rapporto d’amicizia che lega i due protagonisti, ne sono rimasto molto colpito. C’è una notevole dose di gentilezza nel rapporto tra i due, ognuno chiuso nella propria personale solitudine. È un elemento da non sottovalutare nel periodo storico in cui il film è ambientato, quando il colonialismo britannico era ancora un fattore molto importante nel quadro geopolitico internazionale».
Posso chiederle perché raramente è soddisfatto delle sue prove d’attore?
«In realtà mi riferivo più agli ultimi anni della mia carriera. La verità è che oggi mi interrogo sempre più se valga la pena davvero continuare a fare cinema, per me sta perdendo il fascino di trent’anni fa. Per questo sto cercando di alternare film molto diversi per storia e proporzioni, sono passato da Batman v Superman – Dawn of Justice a un progetto britannico indipendente come High-Rise (tratto dal romanzo di J.G. Ballard, ndr), a un film in costume come questo. Il mercato è cambiato, quelli che prima erano i film prodotti con un budget medio adesso sono diventati serie Tv, soprattutto per tematiche e scrittura. E purtroppo anche di buon teatro se ne fa meno: quello è il posto dove amo commettere i miei piccoli errori privati…».
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Foto © Edward R. Pressman/Xeitgeist Entertainment Group/Animus Films/Kreo Films
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