Mad Max: Fury Road: «La mia opera rock»
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Mad Max: Fury Road: «La mia opera rock»

Un’ora e venti di chiacchierata notturna con il profeta dell’Apocalisse, l’uomo che ha creato la saga di Max Rockatansky negli anni ’70, e che ora torna nei suoi deserti con Tom Hardy e Charlize Theron. Signore e signori: Mr. George Miller

Mad Max: Fury Road: «La mia opera rock»

Un’ora e venti di chiacchierata notturna con il profeta dell’Apocalisse, l’uomo che ha creato la saga di Max Rockatansky negli anni ’70, e che ora torna nei suoi deserti con Tom Hardy e Charlize Theron. Signore e signori: Mr. George Miller

Fuoco e fiamme. Sabbia e sudore. Fucili deformi, arti meccanici, sangue prelevato da corpi vivi, usati come serbatoi. L’era dei folli. Benvenuti in Mad Max: Fury Road, un inseguimento lungo un intero film, a bordo di mezzi che sembrano usciti da un incubo postindustriale, tra le dune di un deserto nucleare. La storia di un uomo tenuto in gabbia come un animale per troppo tempo (Max), costretto a unirsi a un gruppo di guerriere (capitanate da una Charlize Theron biomeccanica, dotata di un braccio artificiale) anch’esse in fuga da una gang di pazzi. Le ragazze non vogliono essere più prigioniere e hanno sottratto qualcosa di indispensabile al capo dei briganti, un certo Immortan Joe, che ora le insegue con intenti poco rassicuranti. Max, invece, vorrebbe solo vivere in pace e possibilmente starsene per i fatti suoi, in questo mondo al collasso, ma quello di Fury Road non è il giorno buono per realizzare il suo proposito.

Mad George
Vecchio e nuovo: rabbia seventies, gran dispiego di stuntmen e pochissima computer grafica, ma anche uno stile visivo ipercinetico perfettamente contemporaneo. Ebbene, il papà di questa creatura cinematografica selvaggia e irresistibile (tanto da aver conquistato anche i selezionatori del Festival di Cannes) non è uno dei nuovi enfant prodige di Hollywood, uno, per capirsi, alla Justin Lin o alla James Wan, ma un veterano del cinema action: Mr. George Miller. Un tipo che gli appassionati ancora chiamano Maestro, a distanza ormai di 30 anni dall’ultimo capitolo della trilogia con Mel Gibson che lo trasformò nel vate del postapocalittico, creatore di un immaginario che ha influenzato come pochi altri la cultura pop dei decenni a venire, fino a oggi. Ed è proprio con lui, il miglior interlocutore possibile, che abbiamo parlato di Mad Max: Fury Road, durante una chiacchierata telefonica notturna di quasi un’ora e venti, in cui non era affatto chiaro chi fosse più gasato per il film e per la conversazione, con quella pochissima voglia di riagganciare la cornetta che hanno solo gli innamorati e i cinefili. «Non ci sono supereroi volanti o navi spaziali: ci sono macchine, camion e Tom Hardy, tutti elementi dannatamente concreti. Lo si poteva fare alla vecchia maniera, e alla vecchia maniera l’abbiamo fatto. Alla fine è qualcosa di mai visto prima ma per molti versi anche familiare».

La bellezza dell’Apocalisse
L’azione si svolge 45 anni dopo l’evento che ha riportato l’umanità a uno stadio medievale in cui le persone sono trattate come oggetti e la vita non vale niente. Uno scenario che nessuno sa rappresentare come Miller: il cinema, i videogiochi e i fumetti postapocalittici visti negli ultimi 30 anni infatti vengono tutti da Mad Max. Ken il Guerriero ne è l’esempio più famoso, «ma ci sono anche video musicali e videogame. Pensa che i ragazzi che incontro mi dicono che Mad Max: Fury Road sembra Borderlands!». […] Il suo nuovo film è sì spregiudicato nell’immaginario che mette in scena come la trilogia originale, ma è anche fotografato nello splendore digitale moderno proprio per negare quegli stereotipi; è pieno di sole, colori e immagini di una bellezza devastante: «Ho detto due cose alla troupe prima di iniziare: solo perché è passata l’Apocalisse non significa che la gente abbia smesso di fare cose belle, e solo perché siamo nella terra di nessuno non significa che gli esseri umani abbiano perso il senso dell’umorismo».

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