Venezia 68, Terraferma: i profughi senza speranza di Crialese
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Venezia 68, Terraferma: i profughi senza speranza di Crialese

Primo film italiano in Concorso a Venezia 68, dal regista di Respiro e Nuovomondo

Venezia 68, Terraferma: i profughi senza speranza di Crialese

Primo film italiano in Concorso a Venezia 68, dal regista di Respiro e Nuovomondo

Se Cose dell’altro mondo ha introdotto l’argomento immigrazione in modo ludico e surreale, con Terraferma di Emanuele Crialese, primo film italiano proiettato oggi in concorso, la prospettiva cambia. Isola di Linosa, ai giorni nostri. Si respira aria di Malavoglia, di un piccolo mondo antico che con caparbietà rifiuta il progresso. C’è la contrapposizione tra il codice del mare secondo il quale non si può far annegare nessuno e i barconi zeppi di stranieri che secondo la legge non andrebbero soccorsi. A tutto ciò si oppone strenuamente il capostipite settantenne della famiglia Pucillo, Ernesto. Da una parte c’è lui, caparbio e irremovibile, tutto cuore e pancia, dall’altra ci sono la nuora vedova (Donatella Finocchiaro) che ha paura di rimanere intrappolata in quel lembo di terra immobile, lo zio (Beppe Fiorello) che preferisce pescare i turisti invece dei pesci e infine il giovane Filippo, sospeso tra il mondo del nonno e le ambizioni della mamma e dello zio.  Si muove tra ansie di riscatto e attaccamento alle radici la piccola comunitá dell’isola, in cui gli immigrati agiscono come elementi perturbatori di equilibri già precari. Che crolleranno definitivamente quando i Pucillo raccoglierranno dal mare e ospiteranno clandestinamente una profuga africana incinta.

Terraferma è il punto di approdo a cui vuole arrivare chi naviga, ma è anche un mondo ostinatamente uguale a se stesso. Crialese, dopo l’esperienza kolossal di Nuovo Mondo, torna alle dimensioni small size di Respiro, a quel mondo un po’ viscontiano de La terra trema in cui gli abitanti rifiutano a ogni costo il diverso. La bravura di Crialese è ancora una volta quella di saper far parlare i volti autentici e le voci dialettali nel confronto con un corpo estraneo  che non è più la pazza Golino, ma branchi di profughi bisognosi che costringono al faccia a faccia con una delle paure più ataviche: quella dell’ “uomo nero che ti mangia tutto intero”, espressione usata dal regista stesso nel decrivere il proprio film.

Quelle ombre scure e allungate che di notte emergono dalle acque per cercare di salire sulla barca di Filippo non hanno nulla da invidiare agli zombie di Romero e mordono le nostre coscienze con la stessa ferocia. La carne messa al fuoco è importante e lo stile neorealistico è pregevole nel riuscire a far parlare gli elementi naturali quasi fossero coprotagonisti,  in generale il film però non riesce a scrollarsi di dosso un senso di déjà vu rispetto alle opere precedenti del regista e ai film dei grandi maestri che hanno raccontato la Sicilia.

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